La battaglia contro il denaro

Di Massimo Acciai Baggiani

aspidistraPrima di raggiungere l’immortalità letteraria con capolavori quali La fattoria degli animali e 1984, George Orwell (1903-1950) aveva dato alle stampe un curioso romanzo, Fiorirà l’aspidistra (1936), che anticipa in certi elementi la celebre distopia del Grande Fratello, come vedremo.

Questo romanzo me lo sono letto in macchina, aspettando il verde ai semafori: mi ci sono voluti quasi quattro mesi.[1] Devo dire che è una lettura piuttosto lontana dai miei gusti, anche per questo l’ho affrontata “a piccoli sorsi”, tuttavia mi ha ispirato varie riflessioni su un tema che tocca la maggior parte delle persone a questo mondo: il Denaro.

Il protagonista, Gordon Comstock, è un perfetto idiota. La sua vena masochistica risulta sempre più fastidiosa mano a mano che si va avanti con la lettura. La sua puerile “battaglia contro il denaro”, il suo voler sprofondare sempre più in basso, sempre più «nel fango» aliena progressivamente la simpatia del lettore: in altre parole è uno di quei romanzi moderni in cui manca l’eroe positivo, sostituito da un “antieroe” che alla fine perde la sua sfida personale contro la “rispettabilità borghese”, il conformismo e la ricerca di un «buon posto». Tutte cose simboleggiate, nella mente di Gordon, dall’aspidistra del titolo: una pianta molto diffusa nelle abitazioni borghesi, appunto.

Trentenne con velleità artistiche, Gordon porta avanti un interminabile poema durante il tempo libero dal suo impiego di commesso in una libreria di infimo grado, nella lurida stanza in affitto dove non gli è permesso neppure farsi un tè in santa pace (è costretto a patetici stratagemmi per eludere la sorveglianza dell’arcigna padrona di casa). Giovane promettente originario di una famiglia di persone umili, dopo essersi licenziato da un posto ben retribuito presso una nota agenzia pubblicitaria, dove impiegava la sua creatività per slogan che promuovevano ciò che detestava – il consumismo e la rincorsa al benessere economico – si ribella e si licenzia per seppellirsi nella libreria di cui sopra. Nemmeno qui trova la sua dimensione: è assillato dal «maledetto denaro» di cui non può fare a meno. Senza soldi non ha nemmeno un posto dove passare del tempo con la fidanzata Rosemary, una sorta di crocerossina non meno masochista di lui dal momento che sopporta le sue deliranti invettive contro i soldi e il sistema economico inglese: una ragazza moderna lo avrebbe mandato a quel paese per molto meno. L’amore che gli dimostra è mal riposto; lui non la merita, così come non merita il fidato amico Ravelston, appartenente a quella borghesia che Gordon tanto disprezza.

La prima parte del romanzo oscilla tra narrazione e saggio, rappresentato dalle elucubrazioni del protagonista. La svolta avviene quando una delle poesie di Gordon viene accettata da un’importante rivista e pagata ben dieci sterline. La “ricchezza” raggiunta dà subito alla testa al nostro “eroe” che, anziché utilizzare il denaro per ripagare qualche debito che aveva con la sorella-martire Julia e mettere da parte per i tempi bui, si dà alla pazza gioia, si ubriaca di brutto e finisce in carcere dopo aver sperperato ogni cosa. Sarà Ravelston a pagare la cauzione e tirarlo fuori dalle sbarre, offrirgli una sistemazione presso casa sua e mantenerlo finché non si fosse trovato un altro lavoro (nell’Inghilterra perbenista degli anni Trenta dello scorso secolo si poteva benissimo essere licenziati per molto meno): invece di essere grato all’amico che cerca di tirarlo fuori dalla fogna, Gordon desidera invece sprofondare sempre più fino adesso che ha iniziato a cadere nel baratro. Troverà nonostante tutto un nuovo lavoro in un’altra libreria, meno retribuito del precedente, e vivrà in una stanzetta ancora più sporca e squallida dopo che la padrona di casa, saputo dei suoi guai con la legge, l’ha buttato fuori.

Anche l’adorante Rosemary farà di tutto per risollevare l’amato dalla sua triste, ma voluta, situazione: arriverà perfino a chiedere al suo vecchio datore di lavoro, quello dell’agenzia pubblicitaria, di riprenderlo: Gordon però non ne vuol sapere, preferisce vivere nell’immondizia.

Quando il lettore inizia a pensare che Rosemary e Ravelston sono due idioti pure loro a non lasciare il masochista a cuocere nel suo brodo, c’è la seconda svolta del romanzo: Rosemary è incinta (il concepimento risale al loro primo rapporto sessuale, non protetto perché Gordon è contrario al «controllo delle nascite» imposto dalla morale moderna) e deve scegliere se tenere il bambino o meno. Nel primo caso dovrebbe sposarsi, perché così richiede la morale inglese dell’epoca, e sposarsi con qualcuno che possa mantenerla, nel secondo caso non resta che un aborto clandestino, con grave pericolo per la vita della ragazza. A questo punto Gordon “rinsavisce” e, obtorto collo, si fa riassumere all’agenzia pubblicitaria, si sposa e inizia una normale e tranquilla vita borghese accettando la “vittoria” dell’aspidistra e distruggendo le sue tanto sudate poesie.

In cosa, dicevamo, questo romanzo anticipa 1984? Che rapporto può esserci tra Winston Smith e Gordon Comstock? Più di quelli che possono apparire a una lettura frettolosa. Innanzitutto entrambi i romanzi esprimono un forte pessimismo nei confronti della natura umana; in entrambi il protagonista è destinato alla sconfitta e all’omologazione sociale, in entrambi usa le parole per manipolare il popolo (l’agenzia di pubblicità, la “revisione” della stampa), in entrambi la sorella del protagonista è destinata a sacrificarsi, e infine in entrambi ritorna il tema “maledetto” del denaro (il Grande Fratello sa che può mantenere il controllo della popolazione solo mantenendola in condizioni di povertà) e della “letteratura spazzatura” per tener buone le masse. Anche il protagonista di 1984 ha una infelice vena autolesionista. Ci sono altri richiami, come la scena di Gordon portato in prigione per ubriachezza molesta – in particolare la scena dei servizi igienici senza privacy – e l’alcol che abbrutisce sia Gordon che Winston (nel finale, quando viene infine giustiziato dal regime). Il resto lo lascio scoprire al lettore, al quale consiglio una lettura parallela dei due romanzi.

Venendo invece al tema del denaro, cosa si può dire di questa visione così negativa? Gordon inconsciamente teme la ricchezza perché sa che averne un po’ gli farebbe perdere il controllo (come infatti accade): ciò mi ricorda un mio racconto ancora inedito Un problema di soldi[2] il cui protagonista si ritrova improvvisamente in possesso di una somma considerevole e ne è terrorizzato, non sa come gestirla perché: a) non vuole vivere da ricco perché ha sempre disprezzato il lusso e i ricchi, b) vorrebbe darla in beneficienza ma b1) non si fida delle associazioni umanitarie in quanto le sospetta corrotte e dubita che siano in grado di far avere gli aiuti a chi davvero li merita e b2) fare tutto da solo, conoscere personalmente i possibili beneficiari del suo aiuto, gli porterebbe via troppo tempo e comunque barboni e mendicanti non si fidano di lui e non gli danno confidenza.

papalagiMi viene in mente un altro libro uscito in Germania nel decennio precedente a Fiorirà l’aspidistra. In Papalagi (1920) di Tuiavii di Tiavea (in realtà un falso letterario di Erich Scheurmann). Trovo utile fare un confronto tra le riflessioni sul denaro del saggio samoano con quelle deliranti di Gordon, il quale per tutto il romanzo non fa che lamentarsi del fatto che non ha denaro e quindi deve vivere una vita miserabile senza amici e amore (eppure ha entrambi) e al tempo stesso ricerca di proposito l’indigenza, dimostrandosi alquanto schizofrenico e bipolare. Apro a caso il romanzo di Orwell, alle prime pagine:

«Gordon pensò a Ravelston, il suo ricco amico simpaticissimo, direttore di Anticristo, di cui era smodatamente entusiasta e che non vedeva se non una volta ogni quindici giorni; e a Rosemary, pensò, la sua ragazza, che lo amava, – lo adorava, così lei diceva – e che, ciò nonostante, non era mai venuta a letto con lui. I quattrini, ancora una volta; tutto è denaro. Tutti i rapporti umani devono essere acquisiti coi quattrini. Se non hai quattrini, la gente non si cura di te, le donne non ti amano; non si curano cioè di te o non ti amano quell’ultimo zinzino che conti. E quanto hanno ragione, dopo tutto! Perché, senza soldi, non sei da amare.»[3]

La povera Rosemary fa di tutto per dimostrargli il contrario, così come l’amico Ravelston, ma siccome Gordon è un idiota incaponito nelle sue idee, ed è pure un ingrato, i discorsi affettuosi di chi davvero gli vuol bene cadono nel vuoto. Vediamo cosa dice Tuiavii/Scheurmann:

«Senza denaro in Europa sei un uomo senza testa, un uomo senza membra. Un niente. Devi avere denaro. Ne hai bisogno per il cibo, per l’acqua da bere, per il sonno. Quanto più denaro possiedi, tanto migliore è la tua vita. Se hai denaro puoi avere in cambio tutto il tabacco che vuoi, gli anelli o i panni più belli. Hai molto denaro? Puoi avere molto. Perciò tutti ne vogliono avere molto. E ciascuno vuole averne di più degli altri. Da qui l’avidità e l’occhio teso al denaro in ogni ora del giorno. Getta un tondo metallo nella sabbia e i bambini vi si lanceranno sopra, lotteranno fra di loro per prenderlo e chi lo afferra e lo tiene, il vincitore, è felice. Ma raramente qualcuno getta denaro nella sabbia. […] Ora, quando uno ha molto denaro, molto più della maggior parte degli altri uomini, così tanto che potrebbe con esso rendere il lavoro più facile a cento, mille uomini, lui non dà loro nulla; mette le mani sopra il metallo rotondo e siede sopra la carta pesante e c’è avidità e voluttà nei suoi occhi. E se gli chiedi «Che cosa vuoi fare con tutto quel tuo denaro? Qui sulla terra non puoi fare molto più che rivestirti, placare la tua fame e la tua sete», allora non sa che cosa rispondere, oppure dice: «Voglio averne ancora di più. Sempre di più. E ancora di più». E, così, ben presto ti avvedi che il denaro lo ha fatto ammalare e che tutti i suoi sensi sono posseduti dal denaro. È malato e invasato perché ha dato la sua anima al metallo rotondo e alla carta pesante, e non ne ha mai abbastanza e non può smettere di desiderarne sempre di più. Non è più capace di pensare: «Voglio andarmene dal mondo senza molestie e senza ingiustizie, così come ci sono venuto, poiché il Grande Spirito mi ha inviato nel mondo anche senza metallo rotondo e senza carta pesante». Assai pochi pensano a questo. Per lo più restano nella loro malattia, non guariscono mai nel loro cuore e godono del potere che dà il molto denaro. Si gonfiano d’orgoglio come frutti marci sotto le piogge tropicali. Con voluttà lasciano che molti dei loro fratelli facciano i lavori più duri, per poter essi stessi ingrassare nella pigrizia e prosperare. E fanno questo senza che la loro coscienza si ammali. Si vantano delle loro belle dita pallide che ora non si sporcano più. Il pensiero di derubare continuamente gli altri delle loro energie e di usarle per se stessi non li disturba e non toglie loro il sonno. Non pensano affatto di dare agli altri una parte del tanto denaro che hanno, per rendere loro più facile il lavoro e più lieve la fatica. Così in Europa c’è una metà che deve fare molto lavoro sporco, mentre l’altra metà lavora poco o niente del tutto. La prima metà non ha mai tempo per starsene al sole, la seconda ne ha molto. Il Papalagi dice: «Non tutti gli uomini possono avere ugualmente tanto denaro e mettersi tutti contemporaneamente seduti al sole». Secondo questa dottrina egli si prende il diritto di essere crudele, per amore del denaro. Il suo cuore è duro e il suo sangue freddo, sì, egli mente, inganna, è sempre disonesto e pericoloso quando la sua mano si tende verso il denaro. Spesso un Papalagi ne uccide un altro per denaro. Oppure lo uccide con il veleno delle parole, lo stordisce con esse per rapinarlo. Perciò di rado uno si fida di un altro, perché tutti sono consapevoli della loro grande debolezza. Per questo tu non sai mai se un uomo che ha molto denaro è buono nel fondo del suo cuore, perché potrebbe anche essere molto cattivo. Noi non sappiamo mai come e dove ha preso i suoi tesori.»[4]

verneI due personaggi sono in parte sulla stessa linea di pensiero, ma mentre il samoano vive in una società che per millenni ha vissuto senza il “tondo metallo” (e sta iniziando ad essere corrotta) ed è giustamente convinto che il valore di un uomo non si misura in base al denaro da esso posseduto, Gordon vive nell’Inghilterra del ventesimo secolo è convinto del contrario. La vicenda del poeta che insegue i suoi sogni d’arte in una società votata al guadagno economico mi fa tornare in mente anche un altro libro, letto anni fa: un interessante romanzo di Jules Verne (1828-1905) scritto nel 1863 ma rimasto inedito per oltre un secolo: Parigi nel XX secolo. La tragicomica vicenda umana del protagonista Michel Dufrénoy nella futuribile capitale francese, dove il profitto è il nuovo dio e l’arte è disprezzata, si conclude tragicamente: Dufrénoy rimane fermo nelle sue posizioni, a differenza di Gordon, e muore di fame portando il suo discorso alle estreme conseguenze.[5]

Come i due autori anch’io sono piuttosto scettico riguardo al denaro: quando è poco ovviamente ci sono problemi, ma anche quando è troppo non va bene. Una giusta quantità di denaro potrebbe essere quella che permette di avere un tetto accogliente sopra la testa, pasti regolari e sufficienti per non sentire il morso della fame, accesso alle cure mediche e allo svago, senza mai cadere nel lusso. Il lusso è il male: presuppone che alcune persone abbiano più diritti di altre, che possano derubare i più poveri accaparrandosi le risorse per sé, egoisticamente. Un uomo che vive nel lusso ha il mio disprezzo, lo considero senza mezzi termini un ladro; non importa quanta beneficienza faccia. Qualcuno ha detto che se – per ipotesi assurda – ridistribuissimo equamente le ricchezze, nel giro di poco tempo i poveri tornerebbero poveri e i ricchi, ricchi. È possibile, perciò metterei per legge un tetto massimo al denaro che un singolo uomo può possedere e un tetto minimo garantito per tutti (ovviamente per tutti quelli che, essendo nelle condizioni di farlo, lavorano, e che non sprechino soldi in beni voluttuari o dannosi quali il tabacco o l’alcol – e denaro a sufficienza anche per invalidi di vario tipo che non possono lavorare, non per pigrizia ma per impossibilità oggettiva).

Utopia? Forse, oggi forse è così, ma nel futuro dovrà diventare realtà altrimenti l’avidità umana distruggerà il pianeta e porterà all’estinzione della specie. A un certo punto i poveri non accetteranno più, giustamente, di vedere gente che si paga viaggi turistici nello spazio mentre popolazioni intere muoiono di fame e di malattie curabili con pochi spiccioli. Non siamo più nel medioevo; anche gli ultimi del mondo stanno acquisendo la consapevolezza dell’ingiustizia della loro condizione.

Si chiama progresso ed è inevitabile.

Corezzo-Firenze, 14-16 agosto 2019

 Bibliografia

  • Acciai Baggiani M., Un altro punto di vista, in «Segreti di Pulcinella» (blog).
  • Acciai Baggiani M., Denaro e letteratura: tra utopia e distopia, in «L’area di Broca», n. 84-85, Lug. 2006 – Giu. 2007.
  • Orwell G., Fiorirà l’aspidistra, Milano, Mondadori, 1966.
  • Orwell G., 1984, Milano, Mondadori, 1999.
  • Tuiavii di Tiavea, Papalagi, Millelire stampa alternativa, 1992.
  • Verne J., Parigi nel XX secolo, Roma, Newton, 1995.

Note

[1] Odio sprecare tempo e odio i semafori, per fortuna ho i libri e ogni occasione è buona per leggere (come il protagonista dell’episodio di Ai confini della realtà intitolato Tempo di leggere).

[2] Scritto nel 2019.

[3] Orwell G., Fiorirà l’aspidistra, Milano, Mondadori, 1966, pp. 23-24.

[4] Tuiavii di Tiavea, Papalagi, Millelire stampa alternativa, 1992, pp. 17-19.

[5] Vedi anche il mio articolo Denaro e letteratura: tra utopia e distopia, in «L’area di Broca», n. 84-85, Lug. 2006 – Giu. 2007.

Scrivere è un’attività piacevole?

Di Massimo Acciai Baggiani

1bnScriveva Natalia Ginzburg, riferendosi alla scrittura: «questo mestiere non è mai una consolazione o uno svago. Non è una compagnia. Questo mestiere è un padrone, un padrone capace di frustarci a sangue, un padrone che grida e condanna. Noi dobbiamo inghiottire saliva e lagrime e stringere i denti e asciugare il sangue delle nostre ferite e servirlo. Servirlo quando lui lo chiede. Allora anche ci aiuta a stare in piedi, a tenere i piedi ben fermi sulla terra, ci aiuta a vincere la follia e il delirio, la disperazione e la febbre. Ma vuol essere lui a comandare e si rifiuta di darci retta quando abbiamo bisogno di lui.»[1]

Questa affermazione, piuttosto forte, letta per caso in macchina aspettando il verde al semaforo, mi ha suscitato una serie di riflessione sulla mia attività preferita (non dico mestiere, in quanto non mi dà di che vivere): scrivere. Dirò innanzitutto che io la vedo in maniera praticamente opposta rispetto alla Ginzburg: per me l’atto di scrivere non è accompagnato da sofferenza, bensì da gioia, e non mi toglie energie, anzi me le dona. D’altra parte come potrebbe un anarchico come me accettare un padrone, per lo più autoimposto? Io scrivo cosa e quando voglio, seguendo l’ispirazione del momento (a meno che non si tratti di articoli o recensioni promesse a qualcuno) e questo è uno degli indubbi vantaggi di uno scrittore “non professionista” rispetto a chi è sotto contratto con la Mondadori o la Newton & Compton e deve magari consegnare un romanzo di quattrocento pagine entro due mesi, pena la perdita di denaro (molto denaro). Non a caso Paolo Cammilli[2] si dichiara d’accordo con la Ginzburg: il suo è infatti il punto di vista di uno scrittore professionista. Cammilli, anzi, distingue tra chi “fa lo scrittore” e chi “è uno scrittore”, indicando nel primo colui che si guadagna il pane attraverso il suo mestiere.[3]

Dello stesso avviso è il giornalista pratese Raimondo Preti. In Tutti giù per terra scrive: «Chiariamo subito una cosa: scrivere non è un piacere. Non si tratta di cantare con una bella voce o di imbrattare una tela sperando che qualcuno dica che è un capolavoro. Scrivere è un gioco di capelli strappati, sigarette che bruciano fino al dito e unghie ciancicate.»[4] Di «lotta orribile ed estenuante, come un periodo di dolorosa malattia» parla anche George Orwell in un suo saggio del 1936[5]; il celebre scrittore inglese si riferisce in più punti alla «fatica di scrivere»[6], allo «sforzo descrittivo quasi contro la mia volontà, come una sorta di costrizione esterna»[7], eccetera, a cui lo scrittore è spinto da «egoismo», «entusiasmo estetico», «impulso storico» e «scopo politico»: quattro ragioni per scrivere che sono presenti, a suo dire, in ogni scrittore, pur se in proporzioni diverse, e che rispondono alla logica domanda “Ma allora chi glielo fa fare?”.[8]

Come tutte le cose che all’inizio si fanno per passione, inevitabilmente (pare) anche la scrittura “dilettantistica” quando diventa “professionale” – qualcuno direbbe “quando si fa sul serio” – muta la propria natura trasformandosi da “piacere” in “dovere”. Non essendo mai stato uno scrittore di professione – scrittore sì, ma solo per passione – non mi azzardo a fare un confronto tra i due approcci al foglio bianco…  posso solo dire che, dal mio punto di vista, la scrittura è godimento e soprattutto libertà; anzi è l’azione più libera che uno scrittore può fare. Scrivendo rompo le catene della realtà – forse anche per questo prediligo il genere fantastico – creo sulla carta mondi utopici, decido la sorte dei personaggi a cui do vita (come una sorta di divinità), elaboro trame e supero col pensiero e la fantasia i miei limiti geografici e temporali. Mi trovo insomma d’accordo con l’amico e collega Carlo Menzinger[9], il quale rifiuta perfino la definizione di “mestiere” applicato alla scrittura e replica: «Scrivere un mestiere? Dio no, no!!! Scrivere è un sogno. Scrivere è un gioco. Scrivere è creare mondi nuovi. Scrivere è essere Dei! Cosa c’entra il mestiere? Quello è per falegnami, avvocati, medici e idraulici. Però scrivere non è facile, né cosa lieve. Scrivere è tecnica e metodo e cultura e infinite letture.»[10]

Infatti non bisogna pensare che la scrittura non segua delle sue regole – in primis quella della coerenza interna e della verosimiglianza – se vuol essere efficace, e che non ci sia dietro un lavoro preparatorio fatto di ricerca e di letture. Ammetto che documentarsi per scrivere un libro può essere faticoso e a volte frustrante (anche se Internet ha facilitato molto le cose), ma lo scrivere in sé estremamente liberatorio. Il processo della scrittura, come giustamente nota Menzinger, è per molti aspetti affine al sogno[11]: la differenza sta nel fatto che il sogno non contiene nessuna logica (se non forse quella che vi scorgeva Freud[12]) mentre un buon romanzo o un buon racconto risponde a una logica ferrea, pena l’infrangersi della “sospensione dell’incredulità”. Personalmente infatti per le mie storie ho tratto ispirazione dai sogni in più occasioni, rielaborandoli e piegandoli alla scrittura. Tornando alla Ginzburg, credo piuttosto che sia lo scrittore il padrone e la scrittura l’umile serva – e non il contrario.

Ho sentito comunque altre voci di amici e colleghi scrittori. Marco Bazzato[13] ad esempio si dichiara concorde in parte con la Ginzburg, «visto che quando il demone di una storia reclama di uscire, alla fine è lui che conduce il gioco, noi siamo solo i veicoli della storia, non ne siamo gli effettivi signori e padroni. Questo almeno vale per me, sia quando scrivo, così come quando rileggo per correggere o per revisionare. È la storia stessa che dice in che direzione vuole andare, cosa vuole e cosa soprattutto non vuol fare. È una vita, una serie di vite, dentro lo scrittore, vite che emergono, vengono concepite, crescono nel ventre della nostra mente e poi sono espulse, a volte in modo anche doloroso, come un parto, dove sia la gestazione che l’espulsione a differenza di una gravidanza umana, non dura necessariamente nove mesi, ma può essere più breve o più lunga, così come il travaglio, prima della nascita, del termine ufficioso della gravidanza stessa, perché poi un libro inizia a vivere solamente quando l’opera diviene di dominio pubblico. Lì, allora inizia il suo percorso di vita. Percorso che potrebbe essere brevissimo oppure durare anche per secoli. Facendo però una ricerca etimologica del termine mestiere, tra i diversi significati, ho trovato che questa potrebbe essere la più calzante, se vogliamo associarla a ciò che la scrittrice forse intendeva: “dal fr. ant. mestier (mod. métier), che è dal lat. ministerĭu(m) ‘ministero, ufficio’, deriv. diminĭster ‘ministro, servo’.” Se naturalmente vogliamo escludere la componente economica, legata al termine più comune di svolgere un mestiere, per trarne principalmente un tornaconto economico. Quindi, la scrittrice poteva anche voler intendere una forma di servizio, essere servi del proprio bisogno, del proprio piacere interiore, della propria passione, dell’amore che si prova per la scrittura e anche per gli sforzi che, coloro che sono abituati a farlo, non sentono, ma che richiedono dispendi di energie intellettuali e fisiche, in certi momenti non indifferenti. Stephen King, autore che forse a molti può non piacere, disse grosso modo che, ora non ho il libro sottomano, che tutti coloro che scrivono sono scrittori, indipendentemente dal fatto che ne traggano un ricavo economico, ma qualsiasi persona che ha qualcosa da dire e soprattutto lo sa dire, può e deve considerarsi uno scrittore. […] Il processo creativo credo che sia un mistero per tutti, dove ci nascondiamo dietro diverse definizioni, ma la scintilla, l’input che abbiamo nel metterci innanzi ad un foglio word bianco e lasciare uscire le lettere, le parole, le frasi, per arrivare alla fine del percorso, mettendo il punto finale, rimarrà forse l’ultima frontiera, probabilmente per sempre inesplorata, perché, per quanto magari lo vogliamo, non possiamo essere contemporaneamente dentro e fuori noi stessi, senza mai poter avere una vera visone di insieme, ma forse è anche questo l’aspetto migliore, in quanto potrebbe essere una scoperta e una riscoperta quotidiana che si rinnova di volta in volta.»[14]

Scrive d’altro canto Michele Protopapas[15]: «Io pianifico tutto. La storia, prima di essere scritta è stata domata (altro che mostro, è docile come un gattino): scelgo quali tecniche e quali trucchi usare, determino numero di personaggi e definisco come devono interagire. Solo dopo che è stata pianificata, riassunta in scaletta, confezionata mentalmente, inizio a scrivere. E da lì è tutto in discesa.»[16]

La poetessa Mariella Bettarini è intervenuta nella discussione replicandomi che «se si scrive essendo felici, allora si è felici di scrivere. Se si è infelici, la scrittura allevia molto l’infelicità, e tuttavia non sappiamo se è la scrittura a farci stare meglio, o è il nostro stare meglio che ci permette di scrivere.»[17] Su questo non so rispondere, comunque mi pare una domanda interessante, così come mi pare degna di nota la definizione che fornisce Alessandro Franci nella sua citazione: «“Scrivere è tentare di sapere cosa si scriverebbe se si scrivesse” dice M. Duras[18]. Lo consiglio. D’altronde Rilke scrive al signor Kappus: “Ricordate la ragione che vi chiama a scrivere; esaminate s’essa estenda le sue radici nel più profondo luogo del vostro cuore, confessatevi se sareste costretto a morire, quando vi si negasse di scrivere. Questo anzitutto: domandatevi nell’ora più silenziosa della vostra notte: devo io scrivere? Scavate dentro voi stesso per una profonda risposta. E se questa dovesse suonare consenso, se v’è concesso di affrontare questa grave domanda con un forte e semplice ‘debbo’, allora edificate la vostra vita secondo questa necessità.”[19]»[20]

È interessante anche la definizione di Marco Di Bari, scrittore fiorentino: «La scrittura è una risorsa per il buio, il dubbio, la troppa gioia, l’illuminazione. Però ti allontana dalle persone reali, dal tangibile e dal restituire emozioni dirette. La scrittura parla di una vita ma rischia di confondersi con la vita stessa, senza esserlo.»[21]

Mi viene in mente a tal riguardo Pirandello quando affermava che «la vita o si scrive o la si vive; io non l’ho mai vissuta, se non scrivendola.»[22]

Con quest’aforisma d’autore, che penso possa mettere d’accordo un po’ tutti, chiudo questo breve articolo su un argomento su cui non si finirà mai di discutere, spesso scontrandoci, ma che continua ad appassionare generazioni di scrittori in cerca di una propria identità e di una ragione per spiegare a se stessi e agli altri perché si mettono davanti a un foglio bianco (sia esso cartaceo o elettronico) per riempirlo di parole, invece di occuparsi di attività più redditizie dal punto di vista economico.

Firenze, 21 aprile 2019

Bibliografia

  • M. Acciai, Chi è davvero uno scrittore? Ovvero: poniamo che nessuno compri più libri…, Sìlarus, n. 274, marzo-aprile 2011
  • M. Acciai Baggiani, Il sognatore divergente, Porto Seguro, Firenze 2018.
  • M. Acciai Baggiani, I racconti di Michele Protopapas, tra horror e fantascienza, Passparnous n. 62, aprile 2018.
  • M. Duras, Scrivere, Feltrinelli, Milano 1994.
  • S. Freud, L’interpretazione dei sogni, Einaudi, Torino 2013.
  • N. Ginzburg, Le piccole virtù, Einaudi, Torino 1993.
  • C. Menzinger di Preussenthal, Il narratore di Rifredi, Porto Seguro, Firenze 2019.
  • G. Orwell, Nel ventre della balena e altri saggi, Bompiani, Milano 1996.
  • L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Giunti, Firenze 1994.
  • R. Preti, Tutti giù per terra, Porto Seguro, Firenze 2019.
  • M. Rilke, Lettere a un giovane poeta, Adelphi, Milano 1980.

Note

[1] N. Ginzburg, Le piccole virtù, Einaudi, Torino 1993, p. 88.

[2] Direttore di Porto Seguro Editore e autore di bestseller quali Maledetta primavera (Newton & Compton, 2014), Io non sarò come voi (Sperling & Kupfer, 2015) e Conta fino a dieci (Sperling & Kupfer, 2017).

[3] Io ho dato una definizione diversa nel mio articolo Chi è davvero uno scrittore? Ovvero: poniamo che nessuno compri più libri…, Sìlarus, n. 274, marzo-aprile 2011.

[4] R. Preti, Tutti giù per terra, Porto Seguro, Firenze 2019, p. 157.

[5] G. Orwell, Nel ventre della balena e altri saggi, Bompiani, Milano 1996, p. 105.

[6] G. Orwell, op. cit., p. 104.

[7] Ivi, p. 99.

[8] Ivi, pp. 100-101.

[9] Autore fiorentino di cui ho scritto la biografia letteraria: M. Acciai Baggiani, Il sognatore divergente, Porto Seguro, Firenze 2018.

[10] Questa come altre testimonianze che seguono sono tratte da una conversazione sulla mia bacheca di Facebook, in data 19 marzo 2019 e giorni seguenti.

[11] Come sostengo anche nell’intervista che Menzinger mi ha fatto nel suo saggio su di me: C. Menzinger di Preussenthal, Il narratore di Rifredi, Porto Seguro, Firenze 2019.

[12] Ne L’interpretazione dei sogni (1900).

[13] Scrittore italiano trapiantato in Bulgaria, vedi http://marco-bazzato.blogspot.com/

[14] Vedi nota 10.

[15] «Classe 1980, palermitano d’origine greca, residente a Prato, laurea in Ingegneria Aerospaziale, insegnante di scrittura, matematica e scienze» M. Acciai Baggiani, I racconti di Michele ​Protopapas, tra horror e fantascienza.

[16] Vedi nota 10.

[17] Vedi nota 10.

[18] M. Duras, Scrivere, Milano, Feltrinelli 1994.

[19] M. Rilke, Lettere a un giovane poeta.

[20] Vedi nota 10.

[21] Vedi nota 10.

[22] L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal.