Un giallo e una storia d’amore in provincia

Di Massimo Acciai Baggiani

maledetta-primavera-x1000Lo stile di Paolo Cammilli è inconfondibile: le sue frequenti buffe similitudini, i suoi personaggi profondamente umani, le sue trame ricche, le contraddizioni dei sentimenti, le storie di sesso e vendette. Oggi voglio parlarti, caro lettore, del suo romanzo di esordio, Maledetta primavera, edito nel 2012 dalla sua etichetta editoriale Porto Seguro (dove svolgevo attività di editor, prima della quarantena da Covid-19), e poi ripubblicato da Newton & Compton nel 2014. Un romanzo che è un po’ un giallo, un po’ un thriller, ma soprattutto love story, e molto altro.

Come nel suo romanzo successivo, Io non sarò come voi (Sperling Kupfer, 2015), più maturo, in cui tra l’altro compare il protagonista Fabrizio Montagnèr in un cammeo, Paolo ci presenta una vicenda torbida in cui si intrecciano le storie private di un gran numero di personaggi. Lo sfondo è Settimo Naviglio, un immaginario paesino di circa tremila abitanti, situato nella provincia milanese; l’autore ce ne dà una efficace descrizione in uno dei capitoli iniziali: è un luogo noioso, dove «le cose non accadono»[1], dove non è mai nato un solo personaggio famoso, dove «d’inverno fa un freddo boia ed è tutto grigio. È grigio il cielo, sono grigi i palazzi, è grigio l’asfalto e sono grigi i campi con l’erba morta. Pure il verde sembra grigio. Quando c’è il sole è ancora peggio, con quei raggi pallidi che sembrano frecce di ghiaccio. Se invece arriva la giornata di nebbia, la situazione migliora un pochino. Viene a crearsi una certa atmosfera, un po’ di magia, e non si vede più niente. Che forse è meglio. Con la primavera cambia tutto, ma da un po’ di tempo a questa parte la stagione dei mandorli in fiore dura sempre meno. Arriva subito l’estate e quel caldo che addormenta tutto. Se non hai in casa l’aria condizionata o un ventilatore con le pale di un elicottero Apache, ti conviene telare e passare la giornata al fresco in un qualche centro commerciale.» (riporto uno stralcio della descrizione di Settimo Naviglio perché questo brano mi è piaciuto particolarmente e mi pare rappresentativo del Cammilli più poetico e malinconico).

Su questo sfondo provinciale si muovono, come dicevamo, molti soggetti. I protagonisti però sono due – perché ci sono sempre due protagonisti nei romanzi di Paolo: uno maschile e uno femminile –, Fabrizio Montagnèr e Carlotta “Totta” Magonio. Il primo è un P.R. trentacinquenne, la seconda è una ragazza dolce e orgogliosa che frequenta persone non proprio limpide (come la sua “amica” Ginevra): i due si conoscono su Facebook, da una parte Montagnèr e dall’altra le due amichette che condividono lo stesso profilo farlocco. Già sappiamo come andrà a finire: il nostro “eroe” si innamorerà della sfuggente Totta e quando sarà infine riuscito a conquistarla farà una delle sue perché è un «cazzone, e i cazzoni fanno le cazzate»[2]. Di cosa si tratta? Di una cosa banalissima: il Montagnèr va a letto proprio con l’amica di Carlotta, la spregiudicata Ginevra, da cui viene sedotto.

Intorno a questa storia di corna ruota la parte più giallistica del libro, con un tentativo di omicidio che si ricollega a un vecchio delitto, per risolvere il quale interviene ad un certo punto una sorta di parodia di Dylan Dog, l’ “investigatore dei sogni” David Cramp; un personaggio che si è guadagnato le mie simpatie. Il fattaccio rivitalizza il sonnacchioso paese, perché «in un luogo in cui la vita di tutti i giorni è qualcosa di molto vicino a una disgrazia, una disgrazia somiglia molto alla vita»[3]. Ovviamente non spoilerò la soluzione di questo piccolo mistero di provincia – che comunque conferma la bravura del Cammilli nelle scene di suspense. Non sono un grande appassionato di romanzi polizieschi, ma devo dire che a un certo punto le indagini hanno preso anche me, anche se non sarei mai arrivato alla soluzione. Tra l’altro, come mi ha fatto notare l’autore, la vicenda ha più piani di lettura e un forte legame “mascherato” con fatti di cronaca reali: sotto i nomi dei personaggi si celano (spesso sotto forma di calembours) persone famose. Al lettore più accorto scoprire quali.

Ma la vicenda “gialla” è secondo me secondaria rispetto al tormentato rapporto tra Fabrizio e Totta. I personaggi di Paolo hanno sempre una certa “ambiguità”, una contraddizione insanabile, spesso agiscono sotto effetto di alcolici, mancano di lucidità e di una forte volontà: perciò anche in questo romanzo non ci sono figure del tutto positive o del tutto negative, se non nelle scelte finali. Carlotta è un misto di dolcezza e crudeltà, Fabrizio sarebbe un bravo ragazzo, “innamorato”, ma, anche se soltanto in un’occasione, risulterà infedele. È la sua natura, non può farci nulla, come lo scorpione della famosa storiella che vede per protagonista anche una rana – non a caso citata dal Cammilli (e citata anche in una canzone degli 883[4]).

Qui apro una parentesi personale: per me il vero amore non può essere mai infedele, in quanto se si ha a cuore la felicità dell’amata/o non si farà mai nulla per farla/o soffrire; il sesso non avrà alcun potere sul cuore (ma forse la penso così perché sono un sognatore e per me il sesso è sempre stato secondario in un rapporto). Il sentimento che Francesco prova per Totta secondo me non è dunque vero amore, anche se lui – una volta resosi conto della «cazzata» (che cercherà dapprima di nascondere), una volta scoperto farà di tutto per farsi perdonare quell’unica volta che ha ceduto agli istinti. Ma sa che «si può perdonare ma non dimenticare»[5] e che Carlotta non gliela farà passare liscia tanto facilmente: se lo dovrà sudare, e molto. Alla fine il sospirato “perdono” arriva, in fondo lei era davvero “innamorata” (anche se pure lei aveva avuto una storiella vacanziera) ma Carlotta pretenderà una giusta umiliazione e comunque dichiarerà che non potrà mai più fidarsi e che pure lei “si farà i cazzi suoi”. Indietro non si torna, quando ci sono le corna (ahah mi è venuta la rima!), ed è giusto così.

Firenze, 28 aprile 2020

Bibliografia

Cammilli P., Maledetta primavera, Firenze, Porto Seguro, 2012.

Note

[1] Cammilli P., Maledetta primavera, Firenze, Porto Seguro, 2012, p. 44.

[2] Ibidem, p. 348.

[3] Ibidem, p. 184.

[4] La rana e lo scorpione, nell’album Grazie mille (1999): «schiena e portami sull’altra sponda”- La rana rispose: – “Fossi matta! Così appena siamo in acqua mi pungi e mi uccidi!” -“Per quale motivo dovrei farlo” – incalzò lo scorpione – “Se ti pungo tu muori e io annego!”- La rana stette un attimo a pensare, e convintasi della sensatezza dell’obiezione dello scorpione, lo caricò sul dorso e insieme entrarono in acqua. A metà del tragitto la rana sentì un dolore intenso provenire dalla schiena, e capì di essere stata punta dallo scorpione. Mentre entrambi stavano per morire la rana chiese all’insano ospite il perché del folle gesto. -“Perché sono uno scorpione” – rispose lui.»

[5] Ibidem, p. 384.

Riflessioni personali su “Io non sarò come voi”

Di Massimo Acciai Baggiani

io-non-saro-come-voi-112620Non sono molti i colleghi scrittori, tra quelli che conosco personalmente, ad aver fatto il salto alla grande editoria. Paolo Cammilli è uno di questi. Mio concittadino, quasi mio coetaneo, ha esordito con un best seller quale Maledetta primavera (in origine pubblicato con la Porto Seguro[1], casa editrice da lui fondata nel 2011, poi ripubblicato nel 2014 da Newton Compton) – romanzo che ha avuto importanti riconoscimenti, di vendita e di critica – Paolo ha pubblicato successivamente altri due romanzi – Io non sarò come voi (Sperling & Kupfer, 2015) e Conta fino a dieci (Sperling & Kupfer, 2017) – e, mentre sto scrivendo, sta lavorando al quarto[2]. Paolo non è un autore prolifico, almeno rispetto al sottoscritto o a un autore americano, tuttavia i suoi libri sono densi, complessi, testimoniano una grande meditazione e lavoro di ricerca. I dettagli sono importanti per Paolo; i suoi personaggi sono tridimensionali, vivi, profondi. Il suo stile, che ricorre spesso alla similitudine e alla metafora (generalmente con sfumature comiche), è accattivante e scorrevole. In effetti i suoi libri si leggono in un paio di giorni al massimo; tengono il lettore incollato alle pagine, proprio come un buon thriller.

Chi ritiene che in un libro gli eroi positivi debbano essere ben separati dai cattivi fin dalle prime pagine, probabilmente non apprezzerà Io non sarò come voi. Ne rimarrà disorientato. Qui non ci sono personaggi del tutto buoni o del tutto cattivi, se non sul finale – che sarei tentato di spoilerare (ma mi trattengo). I personaggi sono persone comuni, con le loro contraddizioni e meschinità: i giovani protagonisti vivono quell’età ancora in bilico tra la scelta del Bene e del Male, influenzati (probabilmente troppo) dalle loro compagnie e dal loro breve vissuto, ostaggi degli ormoni, con una personalità ancora in fieri. Io non sarò come voi si può definire un romanzo di formazione, in cui i personaggi cambiano, prendono decisioni importanti che determineranno il loro destino e quello altrui.

La storia, mi ha confidato l’autore, nasce da uno dei tanti fatti di cronaca che purtroppo riempiono i quotidiani. Si tratta di uno stupro di branco: una ragazzina viene violentata da “amici”, coetanei che lei conosceva bene. Una storia squallida, banale perfino nel suo orrore, che nelle mani di Paolo diventa lo spunto per una riflessione molto profonda – a dispetto dello stile spesso ironico e scanzonato – sull’animo umano, sul conformismo, sul sacrificio.

Protagonista è Fabio Arricò, un sedicenne un po’ sfigato che per tutto il romanzo ci appare, almeno a me, piuttosto ambiguo. Un antieroe. Fabio vive i problemi e le insicurezze di molti adolescenti di qualsiasi epoca storica (si parla di una generazione avanti rispetto alla mia o a quella di Paolo, ma potrebbe essere anche una storia del passato), che non sanno imporre la propria volontà, subiscono passivamente le idee del branco, anche quando la situazione sfugge di mano e rischia di provocare delle tragedie (vedi la scena del lancio di sassi dal cavalcavia[3] o quella in cui uno dei loro amici rischia di finire affogato). Personalmente ho vissuto un’adolescenza piuttosto anomala e solitaria, estranea alle dinamiche del gruppo di amici (vivevo molto nel mio mondo, mi vedevo con pochi amici, singolarmente), quindi non mi riconosco a pieno nella storia, e non sono nemmeno molto d’accordo con una mia amica che sostiene che a quell’età non si ha un’identità pienamente sviluppata e perciò «si ha bisogno del gruppo» (nel mio caso non è stato così): tuttavia ho letto con una certa trepidazione la vicenda che, come un meccanismo ben congegnato (come si dice debba essere un romanzo che funziona), conduce al precipitare degli eventi e allo scioglimento finale.

Questo è insomma soprattutto un romanzo psicologico, anche se non mancano l’azione e i colpi di scena. Il desiderio di vendetta di Fabio verso Caterina, colpevole di averlo “snobbato” pur conoscendo il suo “amore” (difficile definirlo tale, sfugge a una definizione netta), è in fondo il desiderio di rivalsa del ragazzo comune verso chi appartiene a una classe sociale superiore, ma non è solo questo: nell’amodio (amore + odio) di Fabio c’è molto di più. Non meno complessa e ambivalente è la protagonista femminile, Caterina Valenti, così come i suoi sentimenti verso Fabio. Il lettore può trovare spiazzanti certi cambi improvvisi di umore, ma così sono le persone reali: angeli e demoni nello stesso corpo, codardi e «valorosi», teneri e feroci. Tutti noi, se ci trovassimo in determinate circostanze, potremo rivelarci eroi o mostri: questa è la mia lettura. Tutti noi siamo chiamati a scegliere il Bene o il Male, ed è soltanto una nostra prerogativa umana: questo a mio parere il messaggio del romanzo. Un libro che rimane impresso a lungo nella memoria.

Firenze, 24 aprile 2020

Bibliografia

Cammilli P., Io non sarò come voi, Milano, Sperling & Kupfer, 2015.

Note

[1] Presso cui svolgo attività di editor e impaginatore, e con cui ho pubblicato cinque miei libri negli ultimi tre anni.

[2] Ambientato in un campo profughi mediorentale.

[3] Anche questa pratica riempiva le pagine di cronaca, soprattutto negli anni Novanta, per alcune tragedie.

La specialità di Dio

Di Massimo Acciai Baggiani

olivieriTra gli incontri più significativi che devo al mio lavoro di editor presso Porto Seguro c’è senza dubbio quello con l’avvocato Riccardo Olivieri. Fiorentino, poeta, uomo di legge, laconico, grande mente: l’ho incontrato spesso durante gli eventi organizzati mensilmente dalla casa editrice e ho imparato ad apprezzarlo dal lato umano prima che da quello artistico, infatti il suo libro La specialità di Dio (uscito appunto con Porto Seguro, nel 2019) l’ho letto solo di recente, dopo averne ricevuta in dono una copia autografata dall’autore[1].

Diciamo subito che è un libro che sfugge alle più banali classificazioni. È certo un libro di poesia, ma è anche narrativa, romanzo, raccolta di micro-racconti. Il paragone più immediato è quello con Edgar Lee Masters e la sua Antologia di Spoon River (e la magistrale “riscrittura” di Fabrizio De André) per la forma narrativa corale ed episodica. La cornice delle storie narrate è data dalla visita dell’anonimo «avvocato» (lo stesso Olivieri?) presso la Casa Pia, una sorta di ospizio e casa di cura, per una visita medica cardiologica: qui incontrerà un vasto repertorio umano di “vecchie”, definite talvolta “streghe”, che racconteranno a turno brandelli delle proprie vite, spesso con amarezza e rimpianto. Non mancano i momenti umoristici, ma si percepisce un pessimismo di fondo, un’autenticità che non rifugge dagli aspetti più crudeli e disgustosi del corpo, un viaggio “dantesco” nelle umane miserie che non risparmia niente e nessuno.

È una lettura che richiede attenzione e stomaco; la scrittura non è sempre lineare e immediata, ci addentriamo d’altra parte nelle regioni più oscure della mente e dell’animo, là dove noi “giovani sani” non osiamo avventurarci. Ma è un viaggio necessario per comprendere il dolore e quindi la vita. Concordo con l’editore, Paolo Cammilli, che l’ha definito giustamente un capolavoro.

Firenze, 3 gennaio 2020

Bibliografia

  • Olivieri R., La specialità di Dio, Firenze, Porto Seguro, 2019.

[1] In cambio gli ho dato una copia del mio libro sul Casentino, Cercatori di storie e misteri (Porto Seguro, 2019).

Scrivere è un’attività piacevole?

Di Massimo Acciai Baggiani

1bnScriveva Natalia Ginzburg, riferendosi alla scrittura: «questo mestiere non è mai una consolazione o uno svago. Non è una compagnia. Questo mestiere è un padrone, un padrone capace di frustarci a sangue, un padrone che grida e condanna. Noi dobbiamo inghiottire saliva e lagrime e stringere i denti e asciugare il sangue delle nostre ferite e servirlo. Servirlo quando lui lo chiede. Allora anche ci aiuta a stare in piedi, a tenere i piedi ben fermi sulla terra, ci aiuta a vincere la follia e il delirio, la disperazione e la febbre. Ma vuol essere lui a comandare e si rifiuta di darci retta quando abbiamo bisogno di lui.»[1]

Questa affermazione, piuttosto forte, letta per caso in macchina aspettando il verde al semaforo, mi ha suscitato una serie di riflessione sulla mia attività preferita (non dico mestiere, in quanto non mi dà di che vivere): scrivere. Dirò innanzitutto che io la vedo in maniera praticamente opposta rispetto alla Ginzburg: per me l’atto di scrivere non è accompagnato da sofferenza, bensì da gioia, e non mi toglie energie, anzi me le dona. D’altra parte come potrebbe un anarchico come me accettare un padrone, per lo più autoimposto? Io scrivo cosa e quando voglio, seguendo l’ispirazione del momento (a meno che non si tratti di articoli o recensioni promesse a qualcuno) e questo è uno degli indubbi vantaggi di uno scrittore “non professionista” rispetto a chi è sotto contratto con la Mondadori o la Newton & Compton e deve magari consegnare un romanzo di quattrocento pagine entro due mesi, pena la perdita di denaro (molto denaro). Non a caso Paolo Cammilli[2] si dichiara d’accordo con la Ginzburg: il suo è infatti il punto di vista di uno scrittore professionista. Cammilli, anzi, distingue tra chi “fa lo scrittore” e chi “è uno scrittore”, indicando nel primo colui che si guadagna il pane attraverso il suo mestiere.[3]

Dello stesso avviso è il giornalista pratese Raimondo Preti. In Tutti giù per terra scrive: «Chiariamo subito una cosa: scrivere non è un piacere. Non si tratta di cantare con una bella voce o di imbrattare una tela sperando che qualcuno dica che è un capolavoro. Scrivere è un gioco di capelli strappati, sigarette che bruciano fino al dito e unghie ciancicate.»[4] Di «lotta orribile ed estenuante, come un periodo di dolorosa malattia» parla anche George Orwell in un suo saggio del 1936[5]; il celebre scrittore inglese si riferisce in più punti alla «fatica di scrivere»[6], allo «sforzo descrittivo quasi contro la mia volontà, come una sorta di costrizione esterna»[7], eccetera, a cui lo scrittore è spinto da «egoismo», «entusiasmo estetico», «impulso storico» e «scopo politico»: quattro ragioni per scrivere che sono presenti, a suo dire, in ogni scrittore, pur se in proporzioni diverse, e che rispondono alla logica domanda “Ma allora chi glielo fa fare?”.[8]

Come tutte le cose che all’inizio si fanno per passione, inevitabilmente (pare) anche la scrittura “dilettantistica” quando diventa “professionale” – qualcuno direbbe “quando si fa sul serio” – muta la propria natura trasformandosi da “piacere” in “dovere”. Non essendo mai stato uno scrittore di professione – scrittore sì, ma solo per passione – non mi azzardo a fare un confronto tra i due approcci al foglio bianco…  posso solo dire che, dal mio punto di vista, la scrittura è godimento e soprattutto libertà; anzi è l’azione più libera che uno scrittore può fare. Scrivendo rompo le catene della realtà – forse anche per questo prediligo il genere fantastico – creo sulla carta mondi utopici, decido la sorte dei personaggi a cui do vita (come una sorta di divinità), elaboro trame e supero col pensiero e la fantasia i miei limiti geografici e temporali. Mi trovo insomma d’accordo con l’amico e collega Carlo Menzinger[9], il quale rifiuta perfino la definizione di “mestiere” applicato alla scrittura e replica: «Scrivere un mestiere? Dio no, no!!! Scrivere è un sogno. Scrivere è un gioco. Scrivere è creare mondi nuovi. Scrivere è essere Dei! Cosa c’entra il mestiere? Quello è per falegnami, avvocati, medici e idraulici. Però scrivere non è facile, né cosa lieve. Scrivere è tecnica e metodo e cultura e infinite letture.»[10]

Infatti non bisogna pensare che la scrittura non segua delle sue regole – in primis quella della coerenza interna e della verosimiglianza – se vuol essere efficace, e che non ci sia dietro un lavoro preparatorio fatto di ricerca e di letture. Ammetto che documentarsi per scrivere un libro può essere faticoso e a volte frustrante (anche se Internet ha facilitato molto le cose), ma lo scrivere in sé estremamente liberatorio. Il processo della scrittura, come giustamente nota Menzinger, è per molti aspetti affine al sogno[11]: la differenza sta nel fatto che il sogno non contiene nessuna logica (se non forse quella che vi scorgeva Freud[12]) mentre un buon romanzo o un buon racconto risponde a una logica ferrea, pena l’infrangersi della “sospensione dell’incredulità”. Personalmente infatti per le mie storie ho tratto ispirazione dai sogni in più occasioni, rielaborandoli e piegandoli alla scrittura. Tornando alla Ginzburg, credo piuttosto che sia lo scrittore il padrone e la scrittura l’umile serva – e non il contrario.

Ho sentito comunque altre voci di amici e colleghi scrittori. Marco Bazzato[13] ad esempio si dichiara concorde in parte con la Ginzburg, «visto che quando il demone di una storia reclama di uscire, alla fine è lui che conduce il gioco, noi siamo solo i veicoli della storia, non ne siamo gli effettivi signori e padroni. Questo almeno vale per me, sia quando scrivo, così come quando rileggo per correggere o per revisionare. È la storia stessa che dice in che direzione vuole andare, cosa vuole e cosa soprattutto non vuol fare. È una vita, una serie di vite, dentro lo scrittore, vite che emergono, vengono concepite, crescono nel ventre della nostra mente e poi sono espulse, a volte in modo anche doloroso, come un parto, dove sia la gestazione che l’espulsione a differenza di una gravidanza umana, non dura necessariamente nove mesi, ma può essere più breve o più lunga, così come il travaglio, prima della nascita, del termine ufficioso della gravidanza stessa, perché poi un libro inizia a vivere solamente quando l’opera diviene di dominio pubblico. Lì, allora inizia il suo percorso di vita. Percorso che potrebbe essere brevissimo oppure durare anche per secoli. Facendo però una ricerca etimologica del termine mestiere, tra i diversi significati, ho trovato che questa potrebbe essere la più calzante, se vogliamo associarla a ciò che la scrittrice forse intendeva: “dal fr. ant. mestier (mod. métier), che è dal lat. ministerĭu(m) ‘ministero, ufficio’, deriv. diminĭster ‘ministro, servo’.” Se naturalmente vogliamo escludere la componente economica, legata al termine più comune di svolgere un mestiere, per trarne principalmente un tornaconto economico. Quindi, la scrittrice poteva anche voler intendere una forma di servizio, essere servi del proprio bisogno, del proprio piacere interiore, della propria passione, dell’amore che si prova per la scrittura e anche per gli sforzi che, coloro che sono abituati a farlo, non sentono, ma che richiedono dispendi di energie intellettuali e fisiche, in certi momenti non indifferenti. Stephen King, autore che forse a molti può non piacere, disse grosso modo che, ora non ho il libro sottomano, che tutti coloro che scrivono sono scrittori, indipendentemente dal fatto che ne traggano un ricavo economico, ma qualsiasi persona che ha qualcosa da dire e soprattutto lo sa dire, può e deve considerarsi uno scrittore. […] Il processo creativo credo che sia un mistero per tutti, dove ci nascondiamo dietro diverse definizioni, ma la scintilla, l’input che abbiamo nel metterci innanzi ad un foglio word bianco e lasciare uscire le lettere, le parole, le frasi, per arrivare alla fine del percorso, mettendo il punto finale, rimarrà forse l’ultima frontiera, probabilmente per sempre inesplorata, perché, per quanto magari lo vogliamo, non possiamo essere contemporaneamente dentro e fuori noi stessi, senza mai poter avere una vera visone di insieme, ma forse è anche questo l’aspetto migliore, in quanto potrebbe essere una scoperta e una riscoperta quotidiana che si rinnova di volta in volta.»[14]

Scrive d’altro canto Michele Protopapas[15]: «Io pianifico tutto. La storia, prima di essere scritta è stata domata (altro che mostro, è docile come un gattino): scelgo quali tecniche e quali trucchi usare, determino numero di personaggi e definisco come devono interagire. Solo dopo che è stata pianificata, riassunta in scaletta, confezionata mentalmente, inizio a scrivere. E da lì è tutto in discesa.»[16]

La poetessa Mariella Bettarini è intervenuta nella discussione replicandomi che «se si scrive essendo felici, allora si è felici di scrivere. Se si è infelici, la scrittura allevia molto l’infelicità, e tuttavia non sappiamo se è la scrittura a farci stare meglio, o è il nostro stare meglio che ci permette di scrivere.»[17] Su questo non so rispondere, comunque mi pare una domanda interessante, così come mi pare degna di nota la definizione che fornisce Alessandro Franci nella sua citazione: «“Scrivere è tentare di sapere cosa si scriverebbe se si scrivesse” dice M. Duras[18]. Lo consiglio. D’altronde Rilke scrive al signor Kappus: “Ricordate la ragione che vi chiama a scrivere; esaminate s’essa estenda le sue radici nel più profondo luogo del vostro cuore, confessatevi se sareste costretto a morire, quando vi si negasse di scrivere. Questo anzitutto: domandatevi nell’ora più silenziosa della vostra notte: devo io scrivere? Scavate dentro voi stesso per una profonda risposta. E se questa dovesse suonare consenso, se v’è concesso di affrontare questa grave domanda con un forte e semplice ‘debbo’, allora edificate la vostra vita secondo questa necessità.”[19]»[20]

È interessante anche la definizione di Marco Di Bari, scrittore fiorentino: «La scrittura è una risorsa per il buio, il dubbio, la troppa gioia, l’illuminazione. Però ti allontana dalle persone reali, dal tangibile e dal restituire emozioni dirette. La scrittura parla di una vita ma rischia di confondersi con la vita stessa, senza esserlo.»[21]

Mi viene in mente a tal riguardo Pirandello quando affermava che «la vita o si scrive o la si vive; io non l’ho mai vissuta, se non scrivendola.»[22]

Con quest’aforisma d’autore, che penso possa mettere d’accordo un po’ tutti, chiudo questo breve articolo su un argomento su cui non si finirà mai di discutere, spesso scontrandoci, ma che continua ad appassionare generazioni di scrittori in cerca di una propria identità e di una ragione per spiegare a se stessi e agli altri perché si mettono davanti a un foglio bianco (sia esso cartaceo o elettronico) per riempirlo di parole, invece di occuparsi di attività più redditizie dal punto di vista economico.

Firenze, 21 aprile 2019

Bibliografia

  • M. Acciai, Chi è davvero uno scrittore? Ovvero: poniamo che nessuno compri più libri…, Sìlarus, n. 274, marzo-aprile 2011
  • M. Acciai Baggiani, Il sognatore divergente, Porto Seguro, Firenze 2018.
  • M. Acciai Baggiani, I racconti di Michele Protopapas, tra horror e fantascienza, Passparnous n. 62, aprile 2018.
  • M. Duras, Scrivere, Feltrinelli, Milano 1994.
  • S. Freud, L’interpretazione dei sogni, Einaudi, Torino 2013.
  • N. Ginzburg, Le piccole virtù, Einaudi, Torino 1993.
  • C. Menzinger di Preussenthal, Il narratore di Rifredi, Porto Seguro, Firenze 2019.
  • G. Orwell, Nel ventre della balena e altri saggi, Bompiani, Milano 1996.
  • L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Giunti, Firenze 1994.
  • R. Preti, Tutti giù per terra, Porto Seguro, Firenze 2019.
  • M. Rilke, Lettere a un giovane poeta, Adelphi, Milano 1980.

Note

[1] N. Ginzburg, Le piccole virtù, Einaudi, Torino 1993, p. 88.

[2] Direttore di Porto Seguro Editore e autore di bestseller quali Maledetta primavera (Newton & Compton, 2014), Io non sarò come voi (Sperling & Kupfer, 2015) e Conta fino a dieci (Sperling & Kupfer, 2017).

[3] Io ho dato una definizione diversa nel mio articolo Chi è davvero uno scrittore? Ovvero: poniamo che nessuno compri più libri…, Sìlarus, n. 274, marzo-aprile 2011.

[4] R. Preti, Tutti giù per terra, Porto Seguro, Firenze 2019, p. 157.

[5] G. Orwell, Nel ventre della balena e altri saggi, Bompiani, Milano 1996, p. 105.

[6] G. Orwell, op. cit., p. 104.

[7] Ivi, p. 99.

[8] Ivi, pp. 100-101.

[9] Autore fiorentino di cui ho scritto la biografia letteraria: M. Acciai Baggiani, Il sognatore divergente, Porto Seguro, Firenze 2018.

[10] Questa come altre testimonianze che seguono sono tratte da una conversazione sulla mia bacheca di Facebook, in data 19 marzo 2019 e giorni seguenti.

[11] Come sostengo anche nell’intervista che Menzinger mi ha fatto nel suo saggio su di me: C. Menzinger di Preussenthal, Il narratore di Rifredi, Porto Seguro, Firenze 2019.

[12] Ne L’interpretazione dei sogni (1900).

[13] Scrittore italiano trapiantato in Bulgaria, vedi http://marco-bazzato.blogspot.com/

[14] Vedi nota 10.

[15] «Classe 1980, palermitano d’origine greca, residente a Prato, laurea in Ingegneria Aerospaziale, insegnante di scrittura, matematica e scienze» M. Acciai Baggiani, I racconti di Michele ​Protopapas, tra horror e fantascienza.

[16] Vedi nota 10.

[17] Vedi nota 10.

[18] M. Duras, Scrivere, Milano, Feltrinelli 1994.

[19] M. Rilke, Lettere a un giovane poeta.

[20] Vedi nota 10.

[21] Vedi nota 10.

[22] L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal.

Firenze Libro Aperto 2018: la fiera libraria cresce

Articolo di Massimo Acciai Baggiani

Firenze-libro-aperto-2018-min

Anche quest’anno, dal 28 al 30 settembre, mi sono recato alla fiera libraria alla Fortezza da Basso nella triplice veste di autore, giornalista e redattore in cerca di contatti con gli editori: è stata un’esperienza ancora più intensa ed emozionante rispetto all’anno scorso. La seconda edizione di Firenze Libro Aperto ha visto crescere enormemente questa iniziativa, portandola quasi al livello delle fiere di Torino e di Milano: si parla di decine di migliaia di visitatori e certo la folla tra cui mi faccio largo lo dimostra. La nuova linea della tranvia inoltre ha agevolato molto l’accesso alla Fortezza.

Tantissimi espositori da tutta Italia – qualcuno anche dall’estero, dalla Svizzera e dalla Germania – occupano i due piani del Padiglione Spadolini. Mi aggiro nel labirinto degli stand, seguendo la mia ispirazione. Sono ben rappresentate un po’ tutte le tipologie di editore e di libro; dal grande al piccolo, all’associazione no-profit, basata sul volontariato, dalla narrativa di successo al settore spirituale, dalle pubblicazioni di nicchia ai bestseller, dal fumetto ai graphic novel, dai materiali didattici per sordi (Il Treno) ai tantissimi fantasy (che testimoniano come questo genere, che piace molto anche a me, sia ancora vitale tra i giovani autori e lettori; cito un nome: Mala Spina), dalla saggistica alla narrativa, alla poesia. Tanti gli incontri con gli autori presenti, dai nomi meno noti a quelli più presenti nelle classifiche di vendita (Stefano Benni, Nanni Moretti, Leo Ortolani, Sergio Staino, Donato Altomare, tanto per farne alcuni).

Nomi importanti anche per quanto riguarda le serate, quando gli stand chiudono i battenti e il pubblico defluisce verso il ristorante nel seminterrato e, dopo essersi rifocillato spendendo il giusto, si va a sentire il concerto di Tricarico, Vecchioni, De André e altri grandi artisti della musica italiana. Le giornate di fiera si chiudono tardi; ce n’è per tutti i gusti.

Come autore ho avuto modo di presentare i miei libri presso il mio editore, Porto Seguro, che, nella persona di Paolo Cammilli, ha organizzato la fiera col prezioso aiuto dei suoi collaboratori, tra cui l’impareggiabile Lucrezia Neri (qui in basso nella foto insieme a me). Sono stato intervistato da due ragazze per una testata giornalistica online e poi di nuovo presso lo stand di Nuuuuz per una videointervista poi condivisa su Facebook.

42750270_10217545047247213_3210123505525850112_o

Ho visto libriccini d’arte, con allegata bustina da tè, da leggersi nel tempo di infusione (Narratè), blind books confezionati in buste chiuse con la sola indicazione di aggettivi che ne descrivono il contenuto (Mds), un Pinocchio tradotto in “emojitaliano” (Apice); ho incontrato i miei editori, quelli che hanno creduto in me e hanno investito sulle mie opere senza chiedermi un centesimo (come la milanese Abeditore, che ha pubblicato La compagnia dei viaggiatori del tempo, e naturalmente lo stesso Cammilli), ho stretto molte mani e riempito il mio zaino di libri, dépliant e cataloghi.

VIAGGIATORI del TEMPO - 5 - EST - Copia

Particolarmente interessante è stato l’incontro con Adriano Forgione, con cui ho un’amicizia in comune a Monterotondo: Antonella Pedicelli. È stata lei a fare da tramite e devo dire di aver conosciuto una persona speciale, con cui sono entrato subito in sintonia. Altro incontro notevole: quello con Donato Altomare, il noto autore italiano di fantascienza, premio Urania. Ho assistito alla sua presentazione e sono riuscito a scambiare alcune parole con lui; mi ha fatto particolare piacere visto il comune interesse per questo “genere” narrativo (anche se a lui non piace molto questa parola “genere”). Non mi dimentico nemmeno della copia di Il rumore della pioggia che Gigi Paoli, autore che ho imparato ad apprezzare durante il mio stage in Giunti e poi conosciuto sul web, mi ha firmato poco prima della sua presentazione de La fragilità degli angeli (appena uscito con la nota casa editrice fiorentina, e da me revisionato durante lo stage).

Non sono stato solo in questo viaggio lungo tre giorni, navigando tra i vari stand. Sono stati al mio fianco gli amici e colleghi scrittori Antonella Bausi, Lenio Vallati, Stefano Carlo Vecoli (di loro due ho seguito le rispettive presentazioni di libri) ma soprattutto Carlo Menzinger, con cui ho presentato Radici e alcuni suoi romanzi, presso lo stand del nostro comune editore. Ho avuto occasione di dire due parole anche sul mio ultimo libro, Il sognatore divergente; una biografia di Carlo, edita anch’essa da Porto Seguro. Carlo mi ha presentato a sua volta alcuni suoi amici scrittori con cui ha collaborato, e Carlo Bordoni, direttore di «IF – Insolito & Fantastico», oltre al già citato Altomare.

42819712_10217554994935899_6635554769572200448_o

Per quanto riguarda invece la mia personale indagine sul mercato del lavoro nel settore dell’editoria – area dove vorrei lavorare come redattore e impaginatore – domandando a destra e a sinistra il quadro che si è formato non è incoraggiante. In Italia non c’è lavoro, o ce n’è pochissimo, anche nelle case editrici, fiorentine e non, piccole e grandi. C’è crisi, inutile nasconderlo, come cercano di fare alcuni. Parliamoci chiaro. Le piccole realtà faticano a sopravvivere, ma la crisi investe anche i grandi. Personalmente ho grande stima per chi intraprende il mestiere di editore, che richiede certo passione e amore sconfinato per i libri: con tutto il rispetto per l’EAP, la mia stima va a quegli editori che ancora investono nei loro autori, che ci credono, che portano avanti la letteratura di qualità in questo paese dove forse cinque o sei persone riescono a vivere di scrittura. Chapeau!

Firenze, 30 settembre 2018

Copertina IL SOGNATORE DIVERGENTE prima

42857065_10217550266257685_2474628682711302144_n