I Pooh divergenti (quinta e ultima parte)

Di Massimo Acciai Baggiani

L’autore del racconto, Massimo Acciai Baggiani – Foto di Italo Magnelli

[quarta parte]

17

«E così ti ha baciato, d’amblée?» domandò l’amico mentre guidava in autostrada.

«Eh sì.»

«E tu?»

«Io… ho ricambiato!»

«Bravo! Così ti voglio! Il ragazzo si è svegliato. Bene, adesso che avete rotto il ghiaccio, cosa pensate di fare?»

«Per il momento non sappiamo, dopo tutto abbiamo solo quindici anni. Ha promesso di portarmi con sé nel futuro, o meglio, in uno dei possibili futuri ucronici a mia scelta.»

«Spiegami meglio questa cosa dell’ucronia, non l’ho mica capita tanto bene…»

Per il ragazzo era un invito a nozze.

«Te ne parlo da scrittore di fantascienza, ma la scienza stessa ha detto la sua in merito. Prendiamo come esempio la vita di un uomo o una donna. Lui o lei si trova ad operare un’infinità di scelte nella propria vita, dando una direzione piuttosto che un’altra. Mettiamo che questa persona sia indecisa se uscire per andare al cinema, nonostante la pioggia, o restarsene a casa: nel primo caso magari viene investita da un’auto, nel secondo caso si salva e passa una serata noiosa ma tranquilla. A un certo punto prende una decisione: resta a casa. L’universo si biforca: ciascuna delle due versioni della stessa persona è convinta che quello in cui vive sia l’unico mondo esistente, e in un certo senso ha ragione perché di solito i mondi divergenti non comunicano tra loro. Ma ha anche torto, perché su un altro piano di realtà esistono entrambi. Per quanto ho capito, le nostre amiche Guardiane dell’Ucronia hanno trovato un modo per viaggiare nel tempo e quindi tra linee temporali diverse. Loro stesse creano universi divergenti, come stiamo facendo noi adesso cercando di mettere insieme i Pooh.»

«Hmm» rifletté l’amico, la cui idea di fantascienza si riduceva ad alieni invasori e procaci fanciulle rapite da robot libidinosi «interessante tutto ciò, ma sembra anche terribilmente complicato…»

«Se ci pensi bene però risolve il paradosso del nonno.»

«Il paradosso di chi?»

«Immagina di viaggiare indietro nel tempo e uccidere tuo nonno prima che procrei. In questo modo tu non nasceresti e non potresti quindi costruire alcuna macchina del tempo e in definitiva non potresti uccidere tuo nonno!»

«Mi gira la testa.»

«Nel multiverso non esiste alcun paradosso: esistono due universi paralleli, in uno il nonno vive, nell’altro muore. In senso assoluto hanno lo stesso grado di realtà, ma relativamente a ciascun universo uno è reale e l’altro solo ipotetico.»

«Hmm sì, ha un senso. Quindi andando indietro nel tempo si può alterare anche il corso della Storia, creare universi alternativi molto diversi dal nostro.»

«Certamente! Immagina ad esempio che Cristoforo Colombo, interpretando male un gesto banale di un indigeno, si diriga più a sud di San Salvador e si scontri con l’impero azteco[1] o che Napoleone sia morto durante la Rivoluzione Francese[2]. Il nostro 1990 sarebbe molto diverso in quelle linee temporali…»

«O che il fascismo non ci sia mai stato in Italia, sì credo di capire.»

«C’è una ricca letteratura ucronica a giro, molta di ottima qualità.»

«Vabbè, lascio a te i libri, qui stiamo vivendo la realtà. Ma cosa diresti ai tuoi genitori quando partirai per un mondo alternativo?»

«Il problema non si pone, visto che grazie ai viaggi nel tempo posso tornare indietro addirittura prima della partenza, starò via solo un giorno o anche meno, anche dovessi passare tutta la vita in un altro mondo!»

«Bravo! Ma poi ti troverebbero invecchiato!»

«Era solo per dire. Comunque Linda mi parlava di un universo in cui si praticava una cura genetica contro l’invecchiamento basato sulla telomerasi…»

«Altra fantascienza? No basta eh.»

«No, questa è scienza. Non ti piacerebbe vivere per sempre?»

«Non siamo fatti per vivere in eterno» sentenziò l’investigatore, chiudendo il discorso.

18

La sala di registrazione puzzava di fumo di sigaretta e di materiale plastico. M. non ne aveva mai vista prima una. Roby, Red, Dody e Stefano erano puntuali: si incontrarono per la prima volta in quell’universo e si strinsero la mano amichevolmente. Per M. fu un momento emozionantissimo, gli venivano quasi le lacrime agli occhi: vedere i quattro Pooh riuniti lì davanti a lui, pronti a suonare le loro canzoni meravigliose, era un tuffo al cuore.

Il momento era storico. Il ragazzo volle immortalarlo con una foto Polaroid: lui insieme ai Pooh! Poi i Pooh da soli e infine ciascuno dietro al proprio strumento che si era portato da casa – a parte la batteria che si trovava già sul posto, a noleggio.

La prima canzone era stata scelta da M. per essere benaugurante e perché era carica di energia e amore per l’arte: Chi fermerà la musica. L’arrangiamento era tutto improvvisato, quindi suonava decisamente diversa da come la conosceva M., ma fu comunque fantastica.

«È davvero forte questo brano, ma davvero l’ho scritto io?» domandò Roby, che evidentemente in quell’universo non aveva ancora scritto tutti i brani che sarebbero stati dei Pooh, ma solo qualche abbozzo.

«Lei e Valerio Negrini» rispose M., che continuava a dare del “lei” ai suoi beniamini, ai suoi occhi tanto più adulti di lui. La registrazione del demo da sottoporre alle case discografiche andò avanti per tutto il pomeriggio, fino a sera tardi. Alla fine quella canzone, nelle sue innumerevoli versioni quasi identiche, stava quasi cominciando a dare sui nervi al ragazzo, che tuttavia rimase ad ascoltare fino alla fine, quando, ormai distrutti, i quattro riposero gli strumenti e se ne andarono con il master del brano.

«A questo punto il nostro compito è finito» commentò l’investigatore mentre si avviavano alla macchina, sotto una pioggerella fine e nebbiosa. «Pensi che riusciranno a trovare una casa discografica importante e che avranno lo stesso successo che hanno avuto nel tuo mondo?»

Il ragazzo alzò gli occhi al cielo, allargando le braccia.

«Più di così noi non possiamo fare, inoltre c’è anche quel misterioso aiuto delle nostre amiche viaggiatrici ucroniche… penso di sì, l’eredità dei Pooh è ottima, penso che la qualità verrà premiata. La porta è aperta, non ci resta che aspettare.»

19

Un pomeriggio estivo, caldo ma non afoso. Due amici stanno percorrendo in macchina l’autostrada verso sud. L’autoradio è accesa: “… trasmettiamo adesso il successo di quest’estate 1990 che, insieme a Notti magiche, ha accompagnato i mondiali di calcio nel nostro paese: Chi fermerà la musica dei Pooh. A seguire un’intervista con il gruppo-rivelazione di quest’anno. Quattro amici si sono incontrati per caso e hanno dato vita a un caso più unico che raro nella storia della musica italiana… un successo tanto rapido quanto strepitoso…”

«E così ce l’hai fatta» dice l’investigatore con un sorriso.

«Ce l’abbiamo fatta» risponde il ragazzo «senza il tuo aiuto non sarei andato da nessuna parte e a quest’ora avrei dimenticato molto, senza le mie cassette. Certo, mi fa un po’ strano sentire canzoni degli anni Settanta con arrangiamenti degli anni Novanta; questi sono brani “vecchi”, eppure… Si vede che doveva essere così.»

«Ma non dicevi che le possibilità sono infinite nell’ucronia?»

«Sì, ma forse c’è anche una sorta di “predestinazione” per certe persone, chissà. È tutto così complicato per me…»

La strada scorre veloce sotto il sole agostano, i due amici ascoltano la radio con interesse.

“… Roby Facchinetti ha un ringraziamento speciale da fare, sentiamo. ‘Queste meravigliose poesie che abbiamo messo in musica ci sono piovute dal cielo, vorremmo ringraziare Valerio Negrini per averle scritte per noi…’”

«Chissà che il vero Valerio in questo momento non stia ascoltando la radio, da qualche parte del mondo, se è ancora vivo: in uno degli universi divergenti lo è di sicuro, e se un giorno venisse a sapere di questa storia non vorrei che mi accusasse di avergli rubato i testi…»

«La vedo improbabile.»

«Quanto manca a Isernia?»

«Una cinquantina di chilometri. Sei impaziente di rivedere la tua fidanzata?»

Il ragazzo arrossì.

«E tu di vedere sua madre, Eleonora?»

«Ma dai!»

Scoppiarono a ridere tutti e due.

20

Linda è bellissima. Il ragazzo la guarda dalla testa ai piedi. I suoi occhi azzurri ricambiano lo sguardo con amore e freschezza adolescenziale. Lei gli prende la mano e lo conduce verso il portale temporale. Visiteranno insieme mondi fantastici, oltre ogni immaginazione. Vedranno magari dinosauri o città volanti – M. ha lasciato alla ragazza la scelta della loro prima destinazione, senza domandarle dove lo avrebbe condotto – e scopriranno le infinite possibilità della storia, in presenti alternativi simili a quello da cui proviene e altri diversissimi, migliori o peggiori, utopie o distopie, e saranno turisti con innumerevoli possibilità davanti a loro. Eleonora li accompagnerà e li presenterà agli altri Guardiani dell’Ucronia, e magari un giorno M. sarà uno di loro, un Guardiano. Nel cuore del ragazzo emergono le parole di Valerio Negrini, il grande poeta dei Pooh; un canto di gratitudine per il momento irripetibile che sta vivendo: “Grazie per la nostra età, per questi anni di velocità, per i satelliti e gli amori che son quelli di un milione di anni fa, e per questa nostra musica, per chi mi lascia respirare e ridere e piangere e vivere a modo mio”.

FINE

Firenze, 16 nevoso – 2 piovoso ’31 (5-21 gennaio 2023)


[1] Si veda Menzinger C., Il Colombo Divegente, Genova, Liberodiscrivere, 2007.

[2] Si veda Acciai Baggiani M., L’ultima regina d’Inghilterra, in “PASSPARnous” n. 49, gennaio-marzo 2017.

I Pooh divergenti (quarta parte)

Di Massimo Acciai Baggiani

L’autore del racconto, Massimo Acciai Baggiani – Foto di Italo Magnelli

[terza parte]

13

«Ehi, chi si rivede!» disse l’investigatore, venendo in soccorso dell’amico, sbiancato in volto e senza parole. «Ci stai per caso seguendo?»

Stavolta fu la ragazza a restare sorpresa all’apparire dell’uomo. Fu la donna che l’accompagnava a rispondere per lei.

«Con chi ho il piacere di parlare?» sibilò, ostile.

«Ci penso io» disse la ragazza facendosi avanti. «Io mi chiamo Linda e lei è Eleonora, mia madre.»

Linda! Pensò M. con immenso stupore nello scoprire che il nome che le aveva dato nella sua fantasia era proprio il suo. E per di più la madre si chiamava come un altro celebre personaggio poohico. L’amico, affatto sorpreso, presentò se stesso e il ragazzo, che continuava a guardare e tacere, come paralizzato, incapace di dire una sola parola.

«Dunque ci siamo visti a Bergamo e ci rivediamo qui nel bolognese…» continuò l’amico.

«… non è un caso» terminò la ragazza, con fare misterioso «ma ogni spiegazione verrà a suo tempo. In certe faccende il tempo è la chiave di tutto, non è vero?»

«Non siamo sicuri che ci piaccia essere seguito, anche se da due rappresentanti del gentil sesso, per di più carine come voi» disse l’amico galante. «Tu che ne dici?» chiese al ragazzo «Di qualcosa!»

«Ti aspetto al tavolo» rispose quest’ultimo, eclissandosi.

«Vada pure» disse la donna. «Qui siamo in un luogo pubblico e possiamo starci quanto ci pare, non vi stavamo seguendo, tranquilli, mia figlia ha uno strano senso dell’umorismo.»

«Già che ci siamo, volete unirvi a noi per cena?»

«Semmai unitevi voi a noi, visto che siamo già seduti.»

«Ah già, sì, vieni M.»

Il ragazzo si alzò malvolentieri.

«Dunque, da dove venite?» domandò l’investigatore poggiando il vassoio sul tavolo «Non sento alcun accento…»

«Mah, un po’ di qua, un po’ di là; abbiamo vissuto in posti diversi» disse Eleonora.

«E tempi diversi!» aggiunse enigmatica la ragazza, stappando una lattina di Coca-Cola.

«Che vuol dire?»

«Niente, niente… diciamo che siamo due viaggiatrici un po’ particolari.»

«Che coincidenza, pure noi!»

«Eh lo sappiamo.»

«Lo sapete? E come?»

«Beh, conoscete la teoria del multiverso?»

Quella parola fu come uno schiaffo per entrambi.

«Universi paralleli…»

«Universi ucronici per la precisione» disse Linda.

«Ehi M., hai sentito? Universi ucronici!»

Il ragazzo aveva sentito bene, ed era basito come l’amico.

«Facciamo parte di un corpo di viaggiatori interdimensionali chiamati Guardiani dell’Ucronia[1]» spiegò Eleonora «di norma combattiamo i raptor intelligenti che si insinuano nei vari universi ucronici per far danni, ma a volte aiutiamo i viaggiatori inconsapevoli come il qui presente M.»

«Questa poi! Come ci avete trovati?»

«È piuttosto complicato da spiegare, anche perché la comparsa di M. in questa linea temporale è collegata a un altro caso che stiamo seguendo da un po’ di tempo. È la classica storia lunga. Quel che conta è che possiamo rimandare M. nel suo mondo di provenienza, o fargli visitare anche altri universi dove i Pooh sono esistiti ma che sono comunque diversi da entrambi: ce n’è uno ad esempio in cui i Pooh hanno dato vita a una sorta di religione dove i testi delle canzoni sono venerati come brani del Vangelo, e la gente vive come dentro una canzone. Lo abbiamo visitato qualche giorno fa…»

«Dunque potete spostarvi a piacimento tra i mondi!?»

«Possiamo anche muoverci nel tempo, creando noi stessi mondi divergenti, a nostro piacimento.»

«Quindi chi ha creato questo mondo ucronico?» domandò l’investigatore, sempre più sorpreso.

«Non lo sappiamo ancora con sicurezza, ci stiamo lavorando. Come avrà capito, non siamo gli unici in grado di usare i Portali Temporali, anzi non li abbiamo nemmeno costruiti noi, anche se li usiamo molto spesso. Qui in Italia il più vicino è a Isernia, in Molise, in una grotta…»

«Mamma!» protestò la ragazza. «Non hanno bisogno di sapere proprio tutto, non sappiamo neanche se M. vuole tornare al suo mondo anziché vivere in questo in cui sta dando vita al suo gruppo musicale preferito!»

«Dunque sapete anche questo!»

«Sì, e molto altro.»

«A questo punto la domanda è: volete aiutarci oppure ostacolarci?»

«Diciamo che vi abbiamo già aiutato con Facchinetti e Canzian, in modi sottili che non vi stiamo a spiegare. Non vi pare strano che abbiano subito accettato di unirsi al vostro folle progetto?»

«In effetti sì.»

«Bene, a questo punto la scelta è di M. Cosa vuoi fare? Vuoi andare avanti o tornare indietro?»

L’animo del ragazzo era diviso. Cosa voleva davvero? Certo, in quel mondo avrebbe creato lui stesso la leggenda dei Pooh, ma l’esito era incerto e avrebbe dovuto faticare non poco. D’altra parte quell’avventura lo aveva ormai preso e non voleva rinunciare a Linda proprio adesso che si erano presentati, anche se fino a quel momento non le aveva ancora rivolto la parola.

In fondo non ci mise molto a prendere la decisione della sua vita.

«Voglio creare i Pooh “divergenti”» disse, guardando negli occhi la ragazza.

14

Dodi abitava in una villetta vicino a Casalecchio di Reno, dove si era trasferito dalla natia Bologna, proprio a due passi dall’omonimo fiume dove si riflettevano le stelle di una notte serena e calda di primavera. I due amici suonarono il campanello e furono accolti da odori mangerecci, segno che i proprietari si erano alzati da poco da tavola. Erano le otto passate.

Prima, all’autogrill, i quattro avevano discusso se presentarsi tutti insieme da Battaglia, poi avevano deciso di non invadergli la casa e comunque lo avrebbero aiutato in uno di quei modi misteriosi che non avevano spiegato bene, “a distanza”.

L’uomo che venne ad aprire la porta era vicino alla trentina ma appariva come un ragazzo; li accolse con un sorriso e li invitò a entrare. L’ingresso era piccolo ma accogliente, con molte chitarre appese al muro, di varie forme e colore.

La cassetta conteneva un solo brano scritto da Dodi; M. aveva scelto non il primo brano scritto per i Pooh nel ‘72, Io in una storia, ma un brano molto più recente che era rimasto nel cuore del ragazzo: Mai dire mai.

“Capita che tu stai male e dici ‘Non mi svegliate mai più’, riapri gli occhi e c’è tutto il sole, sai quel che vuoi e vuoi quello che sai…”

Quelle parole di Negrini lo avevano sempre incoraggiato nei momenti più bui, quando avrebbe voluto dormire “due o trecento anni, Giusto per capir di più e placar gli affanni”, per dirla con Battisti.

Dodi ascoltò con lo stesso attento stupore dei suoi colleghi musicisti, quindi chiese di riascoltare di nuovo il brano.

«Lo ha scritto lei, non è vero?» domandò l’investigatore.

«No, ma riconosco lo stile; è un brano molto bello, con un bel riff di chitarra elettrica, poi anche il testo non è affatto male.»

Certo, pensò M., non era mica detto che i Pooh di questa linea temporale – come l’aveva chiamata Linda – avessero scritto proprio tutti i brani che aveva scelto lui come compilation rappresentativa. Comunque lo stile non è acqua, e quello dei singoli componenti dei Pooh era perfettamente riconoscibile.

«Ci aiuterà dunque a mettere su la band?» domandò infine M., risvegliando il chitarrista dallo stato di trance in cui lo aveva gettato quella canzone.

«Sì, vi aiuterò. Sono proprio curioso di conoscere quegli altri tre. Loro hanno già accettato, giusto?»

«Ci manca solo Stefano D’Orazio, il batterista e l’altro autore dei testi. Lui lo incontreremo a Roma il prossimo fine settimana» rispose l’investigatore, prendendo la cassetta che Dodi gli stava restituendo.

«Sapete, vengo da una famiglia di musicisti» disse Dodi «quanti ricordi! Da ragazzino suonavo la fisarmonica per mia nonna malata e lì ho percepito chiaramente che volevo fare il musicista, anche se poi la vita…»

«“… Ti toglie tante idee, tanta forza…”» citò M., a memoria.

«Ma adesso mi avete ridato una speranza, grazie ragazzi.»

15

La settimana a scuola trascorse banale; dopo tante avventure era dura ritornare su quello stupido banco, aveva imparato cose molto più importanti in un fine settimana con l’amico. Fu interrogato a ragioneria («La ragioneria non è per i poeti!» gli aveva detto la prof, commentando il suo risultato scadente) e affrontò una verifica sui Promessi Sposi, quella andata bene.

La sera rileggeva i suoi appunti sui testi di Valerio e Stefano, domandandosi fino a che punto li ricordasse davvero a memoria. Si stava forse ingannando? Ci aveva messo del suo? Non poteva saperlo con certezza matematica.

Rivide l’amico il sabato successivo. Passò con la sua Renault nel primo pomeriggio e insieme imboccarono l’A1 verso la Capitale, per incontrare l’ultimo componente, Stefano D’Orazio, che aveva già passato la trentina: il manager dei Pooh.

Era forse il passaggio più delicato del piano: lui non aveva musiche composte per il gruppo ma solo testi. Nella cassetta avevano messo il primo testo scritto, Eleonora, mia madre, del ’75 – l’anno in cui era nato M. Era l’ultimo brano della compilation.

Se il fine settimana precedente avevano avuto la benedizione del bel tempo, quel sabato avevano incontrato un brutto temporale e scrosci d’acqua che rendevano difficoltosa la guida anche a un esperto come l’investigatore. Il viaggio fu lunghissimo, interminabile, e nessuno dei due aveva molta voglia di parlare. La temperatura era scesa notevolmente. Per il pernottamento avevano scelto un albergo a due stelle piuttosto periferico, dove l’amico investigatore aveva alloggiato tempo addietro durante un’indagine. Passarono di lì per lasciare i bagagli e dirigersi poi verso il punto d’incontro col batterista.

Linda ed Eleonora avevano preso anche loro una camera nello stesso albergo, ma stavolta i due amici non si sorpresero; erano stati anzi loro ad indicare quell’hotel. M. sentiva che, prima della conclusione di quella storia, madre e figlia avrebbero avuto una parte importante e sorprendente.

Stefano viveva in un appartamento a Torpignattara, quartiere periferico vicino alla via Casilina. Il palazzo era intonacato di rosa e c’erano molti negozi etnici nei dintorni. L’ascensore li portò rapidamente al quinto piano dove trovarono un portone socchiuso da cui spuntavano un paio di vivaci occhi castani sotto a un cesto di capelli ricci.

«Salve viaggiatori della notte» li salutò «che tempo da lupi, eh?»

Li fece sedere in salotto e offrì loro un bicchiere di vino rosso, rifiutato garbatamente da M., astemio.

«Siamo interessati alla sua carriera di scrittore e di regista» disse l’investigatore «ma ancora di più siamo interessati al campo, diciamo, musicale…»

Il sorriso sul volto dell’uomo si spense, come se fosse stato tirato fuori un argomento tabù.

«Forse avete sbagliato Stefano D’Orazio» disse «se cercavate quello dei Vernice…»

M. sorrise. Non conosceva l’omonimo a cui si riferiva il batterista, ma in quel mondo alternativo probabilmente c’erano altre differenze nella musica pop italiana oltre all’assenza dei Pooh, artisti nuovi che ne avevano preso il posto.

«No, nessun errore, sappiamo che lei è stato un musicista, ha suonato in vari gruppi prima di entrare nel mondo del cinema e della letteratura.»

Stefano li guardò sorpreso.

«Sì, è vero, quando facevo la comparsa nei film ho anche fatto lavorare molto le bacchette…»

«… e non solo quelle. Lei è anche bravo con le parole, e non intendo con i romanzi: lei ha scritto dei testi molto belli.»

«E lei come fa a saperlo?»

«Sappiamo molte cose» rispose l’investigatore, poi, rivolto a M. «Vuoi spiegargli la faccenda?»

M. ripeté per la quarta e ultima volta il copione ormai consolidato, ricevendo più o meno la stessa reazione di sorpresa e incredulità iniziale, seguita da estremo interesse. Stavolta l’attenzione si concentrò sul testo di Eleonora, mia madre.

«Ragazzi, non ci crederete, ma ho scritto un testo quasi identico e la cosa incredibile è che non l’ho mai mostrato a nessuno!»

«Lo sappiamo, lo sappiamo.»

«Quindi, se ho ben capito, nell’universo da dove dite di venire io scrivo testi in coppia con queste altre tre persone che io non conosco in questo universo…»

«No, solo io vengo da un altro universo divergente» precisò M. «Il mio amico ne sa quanto lei riguardo ai Pooh, sono stato io a convincerlo, come spero…»

«… di convincere me? Beh, sono impressionato ma vorrei ulteriori prove!»

M. fece mente locale, poi declamò: «“La ragazza con gli occhi di sole cominciava ogni giorno la vita su quel treno di folla e di fumo che dal mare portava in città…”»

«“… Tra i giornali malati di noia la guardavo guardare il mattino con la fronte sul vetro veloce che sfiorava le case del sud.”» continuò Stefano, emozionato. «È una delle mie poesie più belle, dite che c’è anche la musica?»

«Certamente, una melodia molto dolce» rispose M., rammaricandosi di non avere incluso anche quella canzone nella compilation di Tommaso «ma non mi chieda di cantarla che sono stonatissimo!»

«Bene, mi avete incuriosito. Quando possiamo incontrare quegli altri tre?»

M. e l’amico si guardarono in faccia, poi rispose M.: «Pensavamo il prossimo fine settimana, sabato 31, a Casalecchio di Reno, nel bolognese, se possibile.»

«Beh, non ho impegni non rimandabili.»

16

Il poker d’assi era al completo, i due amici potevano dirsi soddisfatti, ma il lavoro era tutt’altro che finito. La settimana seguente parve infinita a M., di nuovo a scuola tra partite doppie e parafrasi dantesche. Nessuno dei suoi compagni sospettava nulla, e ciò lo divertiva molto. Se avessero saputo…

Un giorno M., uscendo da scuola, vide Linda che lo aspettava all’angolo, davanti all’edicola. Pioveva anche quel primo pomeriggio, ma non così forte come durante la trasferta a Roma. Il ragazzo si avviò verso lo scooter, allucchettato poco distante dal portone dell’edificio, come per fuggire, tuttavia la ragazza lo arpionò prima che potesse raggiungerlo.

«Ehi, dove fuggi!? Non ti mangio mica! Ho bisogno di parlare con te a quattrocchi. Andiamo a mangiare qualcosa in quel bar, così magari smette di piovere.»

M. non trovò le parole per ribattere, così si lasciò trascinare dalla ragazza. Il bar era affollato di studenti della vicina università, ma riuscirono a trovare comunque un tavolo libero in mezzo al caos.

«Questa cosa che tu scappi e io ti inseguo è piuttosto ridicola, non trovi?» commentò la ragazza. M. annuì con la testa.

«Ho capito che tu con le ragazze non ci parli, ma non potresti fare un’eccezione per me? Voglio subito mettere in chiaro le cose: tu mi piaci e io piaccio a te, l’ho capito subito da come mi guardavi in quell’ostello a Bergamo. Non siamo più bambini, tu che problema hai?»

Il ragazzo non riusciva a guardarla negli occhi, fissi sul piatto dove spiccava un tramezzino ancora intonso.

«Capisco che metterti con me non sarebbe così facile, in fondo sono una Guardiana dell’Ucronia, come mia mamma, e oggi sono qui, domani là, ma potremo trovare una soluzione.»

M. alzò gli occhi.

«Davvero sei in grado di viaggiare nel tempo?» le domandò infine. Quelle parole, le prime che rivolgeva a una sua coetanea, gli erano costate uno sforzo titanico. Pure maggiore era la curiosità per quella facoltà che andava al di là di ogni sua fantasia, ed era invece realtà. Le credeva. Sì, stava dicendo la verità, non aveva alcun dubbio, e non solo per quelle curiose coincidenze. Qualcosa dentro di lui glielo diceva, ma un’altra parte del suo cervello richiedeva una prova.

«Puoi portarmi con te?» continuò a domandarle, senza darle il tempo di rispondere alla prima domanda.

«Eh, il portale temporale, come dicevamo, si trova in una grotta nascosta tra le montagne molisane. Potremmo farci una visitina, se il tuo amico è d’accordo, quando sarà finito il vostro progetto di mettere insieme i Pooh. A quel punto anche noi dovremo tornare nel nostro tempo…»

«Non è questo?»

«Per curiosità, sai in che anno sono nata?»

«Nel ’75?»

«No, sono una millennial, sono nata all’epoca della pandemia di Covid-19, nel 2020, tra trent’anni insomma.»

«Covid-19? Pandemia?»

«Lascia perdere, sono stati anni bui, tra la pandemia e la guerra…»

«Guerra?»

«Ho detto lascia perdere, non c’è bisogno di parlarne, non ora almeno. Ti piacerebbe però visitare un futuro ancora più remoto? Come sarà il mondo nel 2030 o nel 2035?»

«Scommetto che tu e tua madre lo sapete.»

Ora che si era sbloccato, M. non riusciva più a stare zitto (“c’è chi è stato zitto per tutta la vita, e poi quando parla chi lo ferma più” pensò tra sé, citando un testo di Valerio).

«Nel 2030 ci saranno ancora i Pooh?» domandò il ragazzo.

«Non tutti e non come gruppo; si scioglieranno nel 2016, dopo cinquant’anni di carriera. Questo nella linea temporale da cui provieni. In un’altra linea temporale hanno continuato a suonare anche dopo, ma senza Negrini e D’Orazio…»

«Sono morti? E quando?»

«Negrini nel 2013, D’Orazio invece… beh, la pandemia.»

«Ma avvertendoli prima…»

«Alla morte non si sfugge» replicò enigmatica Linda «sai la storia del soldato che corse tutta la notte verso la Capitale e qui vi trovò la Nera Signora che lo aspettava?»

«Sì, c’è anche una canzone, Samarcanda

«Ecco, puoi sfuggire una, due, tre volte, ma prima o poi ti trova. L’immortalità fisica e solo fantasia. Rimane l’immortalità data dalla fama, e in questo i nostri Pooh ci sono riusciti, gli hanno anche intitolato un lungomare. Nel 2035 avranno dei monumenti.»

«Mi parlavi di altri universi paralleli in cui i Pooh esistono, ma diversi da come li conosco io…»

«Sì, i Pooh divergenti sono infiniti. C’è perfino un universo con cinque “orsacchiotti”, dove Riccardo Fogli non se n’è mai andato, e un altro con Negrini al posto di D’Orazio. Hanno un repertorio un po’ diverso…»

«Mi piacerebbe sentirli!»

«Puoi.»

«Davvero?»

«Sì, e io posso?»

«Cosa?»

«Questo.» La ragazza si sporse verso di lui e lo baciò sulla bocca.

[continua]


[1] Si vedano i romanzi della serie di Jacopo Flammer scritti da Carlo Menzinger: Jacopo Flammer e il Popolo delle Amigdale (Liberodiscrivere, 2010), seguito da Jacopo Flammer nella terra dei suricati (Lulu, 2013).

I Pooh divergenti (terza parte)

Di Massimo Acciai Baggiani

L’autore del racconto, Massimo Acciai Baggiani – Foto di Italo Magnelli

[seconda parte]

9

«Non pensavo che sarebbe stato così facile» disse l’investigatore quella sera a cena, nel salone dell’ostello. M. si trovò felicemente d’accordo con l’amico.

Il ragazzo spiluzzicava dal suo piatto senza molto appetito. Quella sera c’era pesce in umido e verdura lessa, ma la mancanza di fame non era però dovuta all’umore, che anzi era ottimo. Il ragazzo era al settimo cielo per aver potuto conoscere di persona uno dei suoi eroi, anche se in un universo parallelo.

Tutto era andato bene, al di là delle più rosee previsioni. Roby li aveva ricevuti in casa sua, li aveva presentati alla famiglia e li aveva fatti sentire come a casa loro. Era davvero una grande persona Camillo “Roby” Facchinetti, molto alla mano, per nulla snob anche se in quell’universo era comunque un po’ famoso, sebbene non come voce e tastiera dei Pooh. Quei suoi occhi azzurri erano ipnotici, come il sorriso. Naturalmente aveva un’acconciatura dei capelli diversa da quella che M. ricordava, e pareva un po’ più invecchiato rispetto all’immagine che ricordava dal “suo” universo, anche se portava bene i suoi quarantacinque anni. La musica mantiene giovani, sia dentro che fuori, così aveva sempre pensato: i Pooh sarebbero stati eterni ragazzi anche a settant’anni suonati… immortali come le loro canzoni.

Roby li aveva ricevuti in salotto, aveva offerto loro una tisana e qualche biscotto, quindi aveva ascoltato con attenzione e un po’ di perplessità iniziale il discorso di M.

«Ci scusi per la piccola bugia che le abbiamo detto» aveva esordito, rigirandosi le mani nervosamente, incapace di fissarlo in volto. «Ma prima volevamo farle sentire qualcosa.»

L’amico investigatore aveva tirato fuori la cassetta e l’aveva data a Roby, il quale l’aveva guardata con aria interrogativa prima di infilarla nell’impianto stereo del salotto. Subito la stanza era stata inondata di musica meravigliosa nonostante la povertà degli arrangiamenti.

“Tu non lo sai come si sta… nell’infinita attesa… dentro una stanza vuota…”

M. alzò gli occhi sull’uomo cercando di decifrarne l’espressione enigmatica, sforzandosi di coglierne un segnale di familiarità, come se potesse riconoscere la melodia di È bello riaverti, una delle canzoni “minori” dei Pooh, ma non meno belle.

“Tu, porti luce ancora, dove più non c’era!!!”

E via l’assolo di chitarra elettrica, improvvisata da Tommaso in base alle indicazioni imprecise di M. Roby ascoltava rapito, senza dire una parola. I suoi occhi intensi erano fissi come biglie. Quando il nastro si interruppe, segnando la fine del lato A, i due amici fissavano Roby sporgendosi in avanti, quasi sul punto di cadere dal divano. Gli attimi di silenzio che seguirono sembrarono lunghi come eternità.

«Ragazzi, dove avete preso queste canzoni?» aveva infine chiesto Roby, palesemente impressionato, quasi spaventato.

«Se glielo dicessimo non ci crederebbe…» aveva azzardato M., intimorito.

L’uomo si era alzato dal divano e si era seduto a un vecchio pianoforte verticale nell’angolo del salotto, vicino alla finestra da cui si vedeva uno spicchio di cielo azzurro primaverile, tagliato dal ramo di un tiglio. Roby era rimasto qualche attimo come sospeso, poi aveva eseguito una versione strumentale di Tanta voglia di lei.

M. e l’amico si erano guardati con perplessità, domandandosi dove voleva andare a parere. Avevano ascoltato tutta l’esecuzione, quindi l’applauso era partito spontaneo.

«Questa canzone l’ho scritta io!» aveva detto Roby «La musica almeno. Il testo era diverso… comunque non ha importanza, perché, a dire la verità, non l’avevo mai fatta sentire a nessuno. Finora. Ditemi la verità, ragazzi: chi siete?»

A quel punto il piano era saltato. M., nonostante i calci nelle caviglie dell’amico, vuotò il sacco. Raccontò tutto. Mentre parlava, si rendeva conto da solo di quanto incredibili dovevano suonare le sue parole alle orecchie del musicista, il quale aveva ascoltato con crescente meraviglia, ma senza l’incredulità che avevano temuto i due amici. Cosa stava pensando? Cosa penserebbe un musicista che sente la propria opera, tenuta fino al quel momento segreta, cantata da qualcun altro? M. non ne aveva proprio idea.

«Vedete» aveva infine detto Roby, alzandosi dallo sgabello del piano e avvicinandosi alla finestra per guardare oltre. «La musica scorre nelle vene della mia famiglia, ho cominciato prestissimo a suonare e a comporre, ero una sorta di bambino prodigio. Negli anni Cinquanta e Sessanta ho suonato in molti gruppi. Quanti ricordi! Eravamo ragazzi, pieni di sogni che venivano da oltremare. È stato un periodo magico, irripetibile, con grandi gruppi inglesi e italiani. Ma eravamo ragazzi. Poi si cresce e se non si sfonda con la musica bisogna pur inventarsi un lavoro per mettere da mangiare in tavola. Io, come tanti, non ce l’ho fatta, e ora mi venite a raccontare che in un fantomatico universo divergente io ho avuto successo con un gruppo che adesso, se non ho capito male, vorreste formare anche in questo mondo?»

«Sì, la vostra musica è troppo preziosa per non tentare di preservarla» aveva risposto il ragazzo, facendosi coraggio. «Può avere lo stesso successo che ha avuto nel mio mondo, forse addirittura di più. È grande musica, con grandi testi. Io questi testi li conosco a memoria, ne ho trascritti molti qui.»

Aveva mostrato un quadernone e lo aveva aperto a caso per mostrare gli appunti scritti in una calligrafia quasi illeggibile.

«Posso ascoltare anche il lato B?» aveva domandato Roby.

«Certamente.»

Quando era partito il ritornello di Piccola Katy M. aveva notato che le mani dell’uomo tremavano per l’emozione e gli occhi gelidi si erano inumiditi. Era la storia che aveva ispirato il suo romanzo Katy per sempre, compreso il nome della giovane protagonista: M. ne aveva acquistata una copia in libreria e lo aveva già letto prima di quell’incontro. Parlava in effetti di una ragazzina sedicenne che scappava di casa e delle sue avventure e disavventure nel mondo spietato degli adulti. Una Katy che non era tornata indietro e che aveva lasciato dietro di sé solo il suo diario che riempiva sempre “solo con ciò che faceva piacere a chi di notte lo andava a vedere”. Una Katy “ucronica”, tanto per restare in tema.

«Questo testo, come buona parte degli altri, lo ha scritto il suo amico Valerio Negrini» era intervenuto l’investigatore, fino a quel momento rimasto in silenzio.

«Ma io questo Valerio non so chi sia…» aveva obiettato Roby.

«Certo, in questo universo è scomparso misteriosamente prima che poteste incontrarvi.»

L’uomo tornò al pianoforte e accennò il ritornello di Alessandra, sorridendo come un bambino.

«Tutto questo è… incredibile! Pazzesco!»

«Lo sappiamo, e se non ci crede e ci prende per pazzi possiamo capire, toglieremo subito il disturbo» aveva detto M. alzandosi e facendo un cenno all’amico.

«No, aspettate. Sarò matto anch’io, ma vi credo. Non vedo in quale altro modo potreste essere venuti a conoscenza di queste melodie, le ho tenute sempre nascoste anche alla mia famiglia… Ad ogni modo sono interessato a conoscere gli altri… come avete detto che si chiama il gruppo?»

«Pooh!» risposero in coro i due amici fiorentini.

«Come truffa non avrebbe senso, poi su una cosa avete senza dubbio ragione: la musica ce l’ho nel sangue e non mi dispiacerebbe riprovarci, anche se non sono più un giovanotto. Cosa pensavate di fare? Ah, posso tenermi la cassetta?»

«Certo, ne abbiamo una copia. Pensavamo di darci appuntamento a Bologna con Dodi: sarebbe bello far rinascere i Pooh proprio in quella città, dove sono nati nel mio mondo» aveva risposto M., lanciando un’occhiata d’intesa all’amico.

«Adesso chi andrete a raccontare questa storia pazzesca?» aveva domandato il musicista con un sorriso divertito.

«Visto che siamo qua al nord, faremo un salto a Treviso per andare a parlare con Red Canzian.»

La conversazione, come la ricordava M., era stata più o meno questa. Roby li aveva accompagnati alla porta e si era ancora una volta dichiarato interessato al progetto “Réunion dei Pooh”, quindi erano tornati in albergo giusto per l’ora di cena. Il cielo era già scuro, a marzo faceva ancora buio presto, ma una luce brillava nel cuore del ragazzo, sempre più coinvolto in quella fantastica avventura. Il primo passo era stato fatto ed era stato, appunto più facile del previsto.

«Pensi che ci abbia creduto davvero e che non abbia piuttosto assecondato dei pazzi?» insinuò l’amico tagliando il suo pesce nel piatto.

«Non credo, il suo stupore nell’ascoltare il nastro era sincero. Domani proviamo con Red: se abbiamo la stessa fortuna anche con lui siamo a cavallo.»

10

Finito di mangiare, M. notò quella strana ragazza seduta a un tavolo poco distante. Era in compagnia di una donna sulla quarantina, probabilmente sua madre. Nella sua mente di ragazzo e fan dei Pooh le aveva già dato un nome: Linda.

“Linda, acqua di sorgente… Linda calda e innocente…”

Il ragazzo non sapeva se per “Linda” sarebbe stata la “prima volta”, come nella canzone omonima, ma di certo per lui sì, e aveva sempre sognato che la prima volta sarebbe stata per entrambi. Un pensiero strano lo fece arrossire: chissà con una vergine… ma poi pensò che se ci fosse stato del sangue sarebbe svenuto, e il pensiero lo fece vergognare. Nelle canzoni dei Pooh dei primi anni Settanta si parlava spesso di sesso e di prime volte, seppur con molto garbo e poesia; d’altra parte gli stessi Pooh erano dei ragazzi che parlavano ad adolescenti non molto più giovani di loro. Il successo dei Pooh era dovuto, secondo lui, al fatto che molti potevano identificarsi nelle loro canzoni che parlavano di gente comune.

Ad ogni modo M. sapeva apprezzare anche l’amore platonico, l’unico d’altronde che aveva sperimentato nei suoi quindici anni compiuti da poco. Non che volesse restare vergine in eterno, il sesso lo incuriosiva e lo eccitava, ma…

Come indovinando i suoi pensieri, “Linda” si voltò verso di lui e gli fece una linguaccia. M. si sentì di nuovo sprofondare. Fece per uscire dalla sala e andò a sbattere contro un signore con tale violenza che per poco non lo fece cadere. Si scusò e nel mentre si sentì battere una mano sulla spalla. Pensò fosse l’amico, invece si voltò e vide… lei. Gli sorrideva.

«Attento che cadi» gli disse amichevole.

M. non rispose, voleva solo fuggire. Ancora una volta non era in grado di dire nemmeno una parola a una ragazza che gli piaceva. Si girò, pronto alla fuga.

«Aspetta» disse la ragazza «come ti chiami?»

Il ragazzo fuggì veloce su per le scale e si chiuse nella camera senza dire nulla. Sì, si era comportato da vero cafone, ma era stato più forte di lui. Si buttò sul letto e si mise ad ascoltare in cuffia una cassetta, una compilation che aveva fatto di recente pescando da vari artisti italiani e stranieri del decennio appena concluso. Così lo trovò l’amico, al quale non osò raccontare la sua avventura. Fu lui a farne cenno.

«Ho visto che hai fatto colpo!» disse sornione.

«Non ne parliamo, non vale la pena» disse il ragazzo, intendendo l’esatto contrario. Parlarne con un amico più grande ed esperto lo avrebbe potuto aiutare. Lui aveva già avuto varie ragazze e, anche se al momento era single, di esperienze ne aveva da raccontare.

«Parliamone invece. È stata una giornata densa, e siamo appena agli inizi. Va bene mettere insieme il tuo complesso, ma bisogna anche godersi la vita. Alla tua età poi si pensa costantemente alle ragazze, lo so, ci sono passato anch’io prima di te. Cosa direbbero al riguardo i tuoi adorati Pooh?»

M. pensò che avevano tanto da dire, e spesso avevano trovato le parole giuste per farlo, ma la teoria nel suo caso era molto distante dalla pratica. Avrebbe mai superato quel suo limite? Il ragazzo se l’era chiesto spesso, cercando conforto nella musica e nella letteratura. Quante volte si era autogiustificato mascherando la sua timidezza per romanticismo, ingannando se stesso.

«In fondo» continuò l’amico «è un essere umano come te, con le sue insicurezze e difese. Non devi metterla su un piedistallo irraggiungibile. La prossima volta voglio che le parli e ti presenti come si deve, anziché fuggire, d’accordo? Ce la puoi fare.»

«Va bene, ma ora dormiamo. Domani ci aspetta un’altra giornata campale.»

11

Il ragazzo non era mai stato a Treviso, come non era mai stato a Bergamo, ma non era interessato al turismo. Mancava il tempo materiale per quello. Il mattino successivo si alzarono di buon’ora per essere a casa di Canzian nel primo pomeriggio. Si misero in macchina dopo un’abbondante colazione in ostello – M. si diede un’occhiata intorno per vedere se c’era anche “Linda”, ma non la vide – e in poche ore raggiunsero la città veneta, passando per il Lago di Garda. L’autoradio trasmetteva vecchie canzoni nostalgiche, miste a pubblicità varie e notiziari; Nuovo cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore era il miglior film italiano agli Oscar, il miglior film americano era A spasso con Daisy.

Bruno Canzian viveva in periferia, in una villetta elegante. Nel giardino facevano mostra di sé alcuni bonsai ben curati. Ad aprire la porta fu una donna sulla trentina che a M. parve molto bella. Li fece accomodare in giardino, sotto ad un gazebo, e offrì loro tè verde e biscotti nell’attesa del marito, il quale comparve dopo pochi minuti. Sulle prime il ragazzo non lo riconobbe, con i capelli corti e la giacca e cravatta, poi il volto sorridente e “pieno” gli fece tornare in mente l’ultima volta che lo aveva visto, nel suo mondo, ad un concerto al Teatro Tenda di Firenze, con il suo basso fretless imbracciato come un’arma da cui scaturivano note anziché proiettili.

Con lui avevano usato una scusa diversa da quella dell’intervista per il giornalino. Si erano presentati al telefono come galleristi interessati ai suoi quadri, di cui avevano intravisto diversi esemplari in casa. Anche con lui M. finì per raccontare l’incredibile verità, dopo aver fatto ascoltare un brano della famosa cassetta. Si trattava di Il suo tempo e noi: il primo brano scritto, insieme a Roby, per l’album Rotolando respirando del 1977. Come già Roby, anche Red ascoltò con interesse e perplessità il brano.

«Aspettatemi un attimo» disse alla fine della canzone. Tornò dopo pochi attimi con a tracolla una chitarra acustica.

«Potete rifarmi sentire questo brano?» chiese, sedendosi davanti a M., il quale fece partire di nuovo la cassetta nel suo stereo portatile, a pile.

Red cominciò ad accompagnare la canzone con la chitarra, visibilmente emozionato.

«Ho scritto alcuni passaggi di questa canzone» disse infine «ma è diversa da come l’avevo immaginata io. Simile ma diversa».

«Perché l’ha scritta insieme a Roby Facchinetti» chiarì il ragazzo. «Ieri siamo stati appunto da lui, ha detto che vorrebbe conoscerla insieme agli altri componenti dei Pooh».

L’uomo guardò prima l’uno e poi l’altro.

«Sapete vero che questa è una storia incredibile? Universi paralleli, canzoni “fantasma”, è roba paranormale!»

«Lo sappiamo» intervenne l’investigatore. «Ci ho messo anch’io un po’ per accettare la cosa, ma dopo l’incontro di ieri col signor Facchinetti non ho più dubbi».

«Io invece ne ho molti, ma sono curioso di conoscere questi signori. Sapete, negli anni Sessanta e Settanta ho suonato in diversi gruppi e non credo di aver perso il tocco, anche se per vivere faccio altro. Ogni tanto suono il basso in qualche festa con degli amici. Un’occasione per fare musica è sempre una buona occasione, perché no?»

L’uomo porse la mano ai due amici e, dopo averla stretta all’uno e poi all’altro, riprese in mano la chitarra e accennò un altro brano che M. non tardò a riconoscere. Era Amore e dintorni, del 1986. Per un caso c’era anche quella nella cassetta: M. la cercò e gliela fece ascoltare con le parole di Stefano D’Orazio.

«Lui c’è ancora» disse M. «vive a Roma e sarà l’ultimo che andremo a trovare».

«Curioso, io non gli avevo dato un titolo e nemmeno le parole, mi fa una certa impressione sentirla cantata… ma da dove diavolo siete spuntati voi due?! Volete farmi ammattire?»

«Assolutamente no, se vuole ce ne andiamo» disse M., recitando la solita parte già provata con Roby, pur sicuro che li avrebbe trattenuti.

12

«E anche questa è fatta» disse l’amico investigatore mentre guidavano in autostrada verso Bologna, dove avevano appuntamento dopo cena col signor Donato Battaglia. Con lui avevano giocato la carta dell’intervista per una piccola rivista di automobilismo, e avevano giocato bene dal momento che “Dodi” gli aveva dato appuntamento a casa sua dopo cena.

«Già, anche questa è fatta, come disse quello che ammazzò la moglie!» gli fece eco scherzando il ragazzo.

«Ci fermiamo a cenare con un panino all’autogrill?» propose il guidatore.

«Perché no? Comincio a sentire un certo languorino…»

Il cielo si era colorato di un bellissimo tramonto che ancora indugiava sullo specchietto retrovisore della Renault, in un riflesso magico e un po’ inquietante. Presto sarebbe stato di nuovo buio. Si fermarono all’autogrill Cantagallo, vicino a Casalecchio di Reno, dove abitava Dodi. Si trattava di un bell’esempio di “ristoro a ponte”, costruito appunto come un cavalcavia sull’autostrada, accessibile da entrambi i lati, inaugurato nel 1961. Qui c’era la solita calca di automobilisti e camionisti. Decisero di prendere un hamburger con patatine. Quando si sedettero al tavolo per poco a M. cadde il vassoio dalle mani.

“Linda” era lì, al tavolo accanto. Stava parlando con la donna dell’ultima volta, e lo stava guardando. Non sembrava affatto sorpresa, almeno non quanto lui a vederla lì, di nuovo. Chi sei, misteriosa fanciulla? Si domandò. Chi sei?

«Ciao!» lo salutò la ragazza «Hai intenzione di fuggire anche stavolta?» gli chiese ironica.

[continua]

I Pooh divergenti (seconda parte)

Di Massimo Acciai Baggiani

L’autore del racconto, Massimo Acciai Baggiani – Foto di Italo Magnelli

[prima parte]

5

Nei giorni successivi M. e l’amico perfezionarono il loro piano. Quando furono pronti entrarono in azione.

«Ci serve un musicista» aveva detto M., il quale aveva preso qualche lezione di chitarra in passato, ma aveva presto rinunciato perché era troppo doloroso per i polpastrelli, inoltre era stonatissimo.

«Conosco la persona adatta» aveva risposto l’amico, con un mezzo sorriso.

«Deve essere fidato, non vorrei che ci rubasse le canzoni. È un patrimonio importante…»

«Non ti preoccupare, ad ogni modo ce ne servono poche per il momento.»

L’incontro con il musicista, tale Tommaso, avvenne qualche giorno dopo in una sala prove di proprietà dello stesso chitarrista, nel quartiere di Rifredi, in una corte oscura e umida. Tommaso era un giovane sui venticinque anni, con un pizzetto e lunghi capelli ricci da musicista. La storia che si erano inventati era strana ma aveva funzionato: M. si era spacciato per una sorta di medium che aveva avuto le canzoni dall’Aldilà, in una visione. Il chitarrista lo aveva guardato come niente fosse, evidentemente era abituato a frequentare gente strana, a ogni modo accettò con un prezzo di favore vista l’amicizia con l’investigatore. M. si vergognava come un ladro a “stonare” le canzoni dei Pooh, era veramente uno strazio, ma era l’unico modo per tentare di fare capire all’orecchio esperto di Tommaso come poteva suonare la melodia di cui lui cercava le note sulla sua chitarra acustica.

«Ehi, non è niente male ‘sta roba!» aveva commentato Tommaso, ricevuto l’ok da M. per la sua versione acustica di Tanta voglia di lei. «Ora la registriamo.»

Tommaso era un polistrumentista: registrò il demo con la chitarra, quindi aggiunse la tastiera e un arrangiamento rudimentale. M. era galvanizzato, dopo tutto – aveva pensato – le canzoni non erano perdute, si era ricordato il testo parola per parola, era uno dei suoi brani preferiti. Quando intonò Pensiero Tommaso era estasiato, invece l’investigatore non pareva molto impressionato. Dopo un paio di giorni la cassetta era pronta: conteneva i vecchi successi degli anni Settanta, da Pierre a Dammi solo un minuto, eccetera. Alla fine, M. volle includere anche Uomini soli, per chiudere in bellezza.

M. e Tommaso erano molto soddisfatti.

«Tanta roba» continuava a ripetere il chitarrista «roba buona». M. lo guardava geloso, sperando che Tommaso non facesse brutti scherzi.

«Adesso abbiamo i demo» disse l’amico «non ci resta che andare a far visita al buon Facchinetti».

6

Approfittarono del primo fine settimana libero – intanto M. era dovuto tornare sui banchi, essendo finita l’occupazione – per fare il primo viaggio a Bergamo. M. attinse ai suoi risparmi della paghetta dei suoi genitori, mentre l’amico lo aiutò per l’albergo. Partirono sabato pomeriggio, dopo la scuola. M. aveva con sé il suo fido zaino dove aveva infilato quelle poche cose che gli servivano per passare la notte fuori. L’amico investigatore passò a prendere M. con la sua Renault 5 rossa alle tre in punto e insieme si diressero verso nord, in autostrada.

Era una bella giornata primaverile, nel cielo poche nubi, non faceva affatto freddo. L’autoradio trasmetteva un vecchio successo di Lucio Battisti.

«Ripassiamo il piano» aveva detto a un certo punto l’amico investigatore. «Come d’accordo, ho preso appuntamento col signor Facchinetti con la scusa di un’intervista sul cinema, per il giornalino scolastico. Io sono tuo fratello maggiore. Ci ha creduto. Come ti chiami?»

«Valerio, naturalmente. Diamo a Cesare quel che è di Cesare.»

«Quando abbiamo poi messo piede in casa sua verrà la parte più difficile: convincerlo. Qui devi essere bravo tu a parlare.»

«Sì, appena si renderà conto che quella dell’intervista era una scusa potrebbe buttarci fuori di casa, forse anche denunciarci. Ma non credo lo farà, non dopo aver ascoltato il nastro. Anche se nella vita fa altro, è pur sempre un musicista: un grande musicista. Riconoscerà il suo stile, forse alcune di quelle melodie le aveva già composte per conto suo, senza diffonderle.»

«Probabile. Ma rischiamo grosso.»

«Chi non risica non rosica. Comunque la musica ce l’hanno nel sangue, la nostra proposta piacerà sicuramente.»

Seguirono alcuni minuti di silenzio, riempito dalla voce di Battisti: «Acqua azzurraaaa… acqua chiaraaaa».

«Tanto vale raccontargli la verità» disse a un certo punto il ragazzo. «Non credi?»

«Pessima idea, ti prenderebbe per pazzo. Già io faccio fatica a credere a questa storia, e ti conosco da anni. Come reagirebbe un perfetto sconosciuto se gli dici che in un universo parallelo è un cantante famoso che ha venduto decine di milioni di dischi?»

«Già, non è il caso. È più semplice seguire la tua idea.»

«Atteniamoci al piano, ok?»

Il ragazzo annuì, gli occhi fissi sull’autostrada che filava veloce.

Altri minuti di silenzio. Battisti aveva lasciato il posto al bollettino del traffico.

«Ma perché hanno scelto questo nome?» domandò l’investigatore.

«Chi?»

«I Pooh, chi altri?»

«È stata la segretaria della Vedette, la loro prima casa discografica. Aliki Andris era fan dell’orsacchiotto della Disney. Un nome breve e facile da ricordare, che li ha poi proiettati nella leggenda.»

«Ma se sono così bravi, come mai non hanno avuto successo come solisti o con altri gruppi?»

«Venivano tutti da altri gruppi, infatti, quando hanno formato i Pooh. Red ad esempio era la voce e la chitarra dei Capsicum Red, un gruppo progressive attivo fino al ’73, quando è passato appunto ai Pooh. Avevano fatto anche un album molto interessante… Comunque, tra i Pooh si è creata una sinergia, una “magia” se vuoi, che va al di là dei contributi dei singoli componenti. I lavori solisti di Facchinetti, Red e Dody – sì, hanno fatto anche album solisti – non sono a mio parere al livello dei lavori in cui hanno lavorato insieme, pur essendo opere più che dignitose. Vedi, è difficile da spiegare…»

«Sì sì, va bene. Siamo quasi arrivati. Passiamo prima in albergo a lasciare i bagagli e darci una rinfrescata.»

7

L’ostello si trovava nella parte alta e più suggestiva della città: un edificio anonimo ma con servizi in camera e costi contenuti. I due amici avevano preso una stanza doppia, per risparmiare. M. era abituato a dividere la stanza col fratello e, durante le gite scolastiche, con altre persone. Ai genitori aveva raccontato una balla riguardo a quel viaggio, e un po’ si sentiva in colpa, ma cos’altro poteva fare?

Viaggiare lo metteva sempre di buon umore. Sentire la strada che va, dormire in un letto diverso, aprire la mattina la finestra su un diverso paesaggio, ascoltare i suoni di altre città e respirarne gli odori. Molti dei suoi racconti, pensò, avevano a che fare con viaggi, in questo mondo reale ma più spesso in mondi fantastici partoriti dalla sua fantasia. M. era un creatore di mondi e gli piaceva costruirli fino ai più piccoli dettagli: adesso che si era trovato in una storia che poteva essere uno dei suoi racconti “ai confini della realtà”. Prese mentalmente nota di scriverci qualcosa sopra, non appena quella storia fosse finita. Sperò in un lieto fine, per quanto azzardato.

L’auto si infilò nel parcheggio dell’ostello, semideserto, quindi i due amici si incamminarono verso la reception con i loro zaini sulle spalle. Dietro il bancone c’era una donna sulla trentina, bionda e con occhi verdi. Sulla targhetta appuntata sul seno si leggeva “Benedetta”. Consegnò loro le chiavi della 414, al quarto piano, e augurò “buon soggiorno” con voce professionale, dopo aver comunicato l’orario della cena.

«Ce la sbrigheremo in un paio d’ore» disse l’amico più grande. «Un lavoretto da niente» scherzò dando una pacca sulle spalle del ragazzo. La stanza era spartana, ma per una notte andava bene. M. si augurò che l’amico non russasse.

L’appuntamento con Facchinetti era alle 17 a casa sua. Avevano acquistato una mappa della città e l’amico investigatore aveva già studiato il percorso.

«Ho letto da qualche parte che in America stanno lavorando a un congegno che sarà presto disponibile in tutte le auto e che indicherà la strada da seguire basandosi sul segnale GPS, insomma un navigatore elettronico…»

«Eh, e poi sono io che legge troppa fantascienza!» lo interruppe M.

«Vado a prendere un caffè al bar, vieni anche tu?»

«No grazie, adesso non mi va. Vado a fare un giro.»

L’ostello era labirintico, enorme, smisurato, vagamente escheriano e pieno d’ombre. Il ragazzo girellò un po’ nel silenzio, quindi si ritrovò di nuovo nella hall. Qui si buttò su uno dei divani. Solo allora notò di non essere solo.

8

La ragazza poteva avere più o meno la sua età. Era molto carina. Aveva capelli lunghi, neri come l’inchiostro, che teneva sciolti sulle spalle, e occhi azzurri. Il viso era un ovale perfetto. M. scoprì i propri limiti di scrittore nel tentare di descriverla, come se stesse buttando giù un racconto. D’altronde i suoi personaggi non erano ben caratterizzati fisicamente, erano piuttosto bidimensionali. Lei invece era lì, “pur presente e viva” con i suoi “tratti dolci e gli occhi d’acqua pura” (come avrebbe detto Valerio, bravissimo, lui, nei suoi ritratti femminili). Il ragazzo restò a fissarla, incapace di distogliere lo sguardo, finché lei non si voltò.

«Fai una foto, durerà più a lungo!» disse ridendo.

M. si sentì sprofondare dalla vergogna. Arrossì fino alle orecchie, non sapendo più dove guardare. Borbottò alcune scuse. La ragazza si alzò e si avviò verso l’ascensore.

«Beh ciao» disse prima di sparire.

Il ragazzo rimase basito.

M. aveva scoperto da poco l’amore: quel sentimento adolescenziale, così fresco e genuino da far girare la testa come vino forte, così nuovo e grande che poteva spaventare. Il ragazzo infatti non osava parlare all’altro sesso, era timido in modo patologico. Soffriva e si crogiolava nella sua solitudine in parte voluta. Non a caso Uomini soli gli era piaciuta al primo ascolto. Spesso le canzoni dei Pooh lo consolavano, gli davano forza, lo tiravano su quando era triste e lo facevano cantare (anche se era stonato) quando era allegro. Erano la sua Ars amatoria, il suo manuale d’amore, un’antologia di tutti i possibili casi che possono capitare a due persone nel vasto campo dei sentimenti per lui in buona parte sconosciuti. Tuttavia credeva all’amore a prima vista e soprattutto credeva alle favole.

Avrebbe voluto correrle dietro, dirle qualcosa di arguto e di intelligente per non farla andare via, ma era troppo tardi e comunque non gli veniva in mente nulla. Come al solito, quando si trattava di ragazze perdeva la parola. Tornò sconsolato al divano, aspettando che scendesse l’amico per andare all’appuntamento, ormai vicino. Si sentiva molto nervoso e recitò tra sé un mantra rassicurante.

[continua]

I Pooh e la narrativa

Di Massimo Acciai Baggiani

A quasi due anni dalla scomparsa dell’ex Pooh Stefano D’Orazio, causa Covid, ho affrontato, con un certo scetticismo, il suo romanzo postumo Tsunami, insieme al romanzo dell’amico, e pure lui ex Pooh, Roby Facchinetti, Katy per sempre. Il mio scetticismo era dovuto al fatto che spesso chi eccelle in una branca artistica raramente raggiunge certe vette in un’altra. Dopo la lettura di questi due romanzi devo dire che siamo in presenza di due eccezioni: si tratta infatti di libri molto belli, dignitosissimi, all’altezza dei lavori musicali dei due. Facchinetti e D’Orazio sono artisti eclettici, a tutto tondo.

Il primo in ordine cronologico è il romanzo di Facchinetti. Questi ripercorre la vita di Rita, detta “Katy” per il suo amore verso i Pooh e per la sua tentata fuga da casa, quando aveva la stessa età dell’omonima protagonista della canzone. Ogni capitolo prende non a caso il titolo da una canzone della lunghissima carriera dei Pooh; una canzone che sembra scritta apposta per la protagonista, che si trova così a vivere in prima persona le storie narrate da Valerio Negrini e Stefano D’Orazio. Rita-Katy conoscerà di persona i suoi eroi e vivrà intensamente varie storie d’amore e d’amicizia che la porteranno a maturare. Si tratta in questo senso di un romanzo di formazione, come pure il romanzo di Stefano (come vedremo). Compaiono nel libro le figure stesse di Facchinetti e di Negrini, ai cui testi-poesie cui ho dedicato un saggio uscito quest’anno per L’Erudita editore (marchio di Giulio Perrone): La poesia dei Pooh.

Nel mio libro ovviamente non ho parlato solo di Valerio, ma anche di Stefano, il secondo poeta dei Pooh (secondo in quanto a quantità, non certo a qualità). Il romanzo di D’Orazio non cita i Pooh, al contrario di quello di Facchinetti. Si tratta in poche parole di una rivisitazione in chiave moderna di Robinson Crusoe: un pubblicitario milanese, Walter Sartori, parte per un viaggio in Polinesia e si ritrova vittima dello tsunami del titolo proprio mentre percorre in barca in solitaria le isole del sud. Naufrago su un’isola deserta insieme a un gatto “clandestino”, Capitano[1], non si perde d’animo e riesce a organizzarsi la vita prima di cogliere al volo la possibilità di fuga grazie a un evento che pone a rischio la sua stessa vita: lo sbarco di alcuni trafficanti d’armi senza scrupoli. Il lieto fine e d’obbligo.

Lo stile di questi due romanzi è molto vicino, come sono vicine le sensibilità dei due autori: semplice, scorrevole e accattivante come le canzoni dei Pooh.

Firenze, 23 ottobre 2022

Bibliografia

Acciai Baggiani M., La poesia dei Pooh, Roma, L’Erudita, 2022.

D’Orazio S., Tsunami, Torino, La corte, 2021.

Facchinetti R., Katy per sempre, Milano, Sperling & Kupfer, 2020.


[1] Da gattofilo qual sono ho trovato commovente la scena in cui Walter salva la vita al suo amico felino, quando questi ha ingerito delle bacche velenose.

Notte a sorpresa

Di Massimo Acciai Baggiani

notte a sopresa

Segnalo con grande piacere l’evento dedicato ai fan dei Pooh (folta schiera di cui faccio parte da quando li ho scoperti durante Sanremo ’90), organizzato da “Il Gran Popolo dei Pooh” e tenutosi sabato 2 marzo in provincia di Verona: evento che ha visto la partecipazione a sorpresa di Roby Facchinetti, oltre al mitico concerto dei Brennero 66, la storica tribute band ufficiale. Avrei voluto esserci anch’io, per incontrare il grande Roby e l’amico Fabrizio Di Marco, membro dei Brennero 66, il quale aveva omaggiato Facchinetti con un suo album di cover, Un sogno vissuto, da me recensito un anno e mezzo fa : spero venga organizzato un evento simile anche nella mia Toscana, un giorno… D’altronde è proprio nella mia città, Firenze, che ho incontrato per la prima volta di persona i Pooh, quando portavano a giro per l’Italia il loro album celebrativo dei 25 anni di carriera: ne è passata di acqua sotto i ponti da allora, ma l’amore per la buona musica quello non è  mutato. I Pooh restano per me i numeri uno!

Firenze, 11 marzo 2019