Coelho e l’eterna guerra tra Bene e Male

Di Massimo Acciai Baggiani

L’anno è iniziato con un’interessante lettura: un breve romanzo di Paulo Coelho, di cui ho già letto diversi libri, intitolato Il Diavolo e la Signorina Prym. La trama è piuttosto semplice e lineare: nel paesino di Viscos giunge uno straniero tentatore che offre una grossa ricchezza in lingotti d’oro agli abitanti se, entro una settimana, ci sarà un omicidio. La cosa sorprendente è che questi ultimi accettano il patto satanico all’unanimità, designando come capro espiatorio una povera vecchia indifesa che non ha mai fatto del male a nessuno. Lo straniero ha proposto il diabolico patto per dimostrare a se stesso che l’uomo è per natura malvagio e che non esistono uomini “buoni”: dietro questo piano c’è un dramma personale terribile, la morte della moglie e della figlia del ricco straniero in un rapimento finito male. I personaggi degni di nota sono diversi, non ultima la giovane del titolo (che avrà un ruolo risolutivo nel finale… almeno questo non lo spoilero), ma quello che più mi ha colpito è la figura del prete che, straniero anche lui, benedice il “sacrificio” con parole che fanno venire i brividi tanto sono radicate nella Storia umana e della chiesa cattolica in particolare: «Signore, Tu hai detto che nessuno è buono: accettaci con ogni nostra imperfezione e, nella Tua infinita generosità e nel Tuo infinito amore, perdonaci. Così come hai perdonato i crociati che uccisero i musulmani per riconquistare la Terra Santa di Gerusalemme, come hai perdonato gli inquisitori che volevano preservare la purezza della Tua Chiesa, come hai perdonato coloro che Ti offesero e Ti inchiodarono sulla croce, perdonaci: dobbiamo offrire un sacrificio per salvare il paese.»[1]

Così come Giuda era stato “strumento divino” affinché le Scritture si compissero, rendendo quindi il Male necessario, si crea qui un paradosso insolubile che sfocia nella schizofrenia e nella blasfemia. Il paese avrebbe bisogno di quel denaro pagato col sangue di una innocente, ed è disposto a dannarsi per questo, ma per essere quindi perdonato da un dio che mira a riempire la chiesa di abitanti presi dal rimorso, come dire che il fine giustifica i mezzi (il Male serve il Bene, o forse viceversa). Personalmente ho sempre schifato i massacri perpetrati in nome di qualsiasi divinità; il romanzo di Coelho, avvincente come un thriller, sembra darmi pienamente ragione.

Firenze, 2 gennaio 2022

Bibliografia

Coelho P., Il Diavolo e la Signorina Prym, Milano, Bompiani, 2002.


[1] Coelho P., Il Diavolo e la Signorina Prym, Milano, Bompiani, 2002, p. 122.

Il Gran Torneo delle religioni

Ultimamente lo scaffale del libero scambio mi ha presentato un libro bellissimo riguardo al dialogo interreligioso, il più bello e interessante su questo argomento tra quelli che ho letto. Sotto la forma di un romanzo con sfumature “gialle” e “rosa”, l’autore, Shafique Keshavjee, teologo keniota di origine indiana, mette a confronto le cinque religioni più diffuse (buddismo, induismo, islam, ebraismo, cristianesimo) in un ipotetico torneo “sportivo” a cui partecipa anche un delegato ateo (o meglio, un libero pensatore materialista, visto che anche il delegato buddista è ovviamente ateo): ciascuno presenta la propria fede, a turno, senza essere interrotto dagli altri “atleti”, civilmente, in un clima di grande amicizia che può esistere giusto in un romanzo: nella realtà in un torneo del genere probabilmente i delegati si scannerebbero a vicenda, o quando meno cercherebbero di sopravanzare gli avversari parlando, o meglio urlando, in contemporanea, come in un talk show televisivo…

Il Re, il Saggio e il Buffone si svolge d’altronde in un luogo di fiaba, un reame “lontano lontano” dove il sovrano ha a cuore i propri sudditi ed è affiancato da due consiglieri molto diversi: un sapiente e un buffone. Una notte tutti e tre fanno uno strano sogno che ispirerà loro il curioso torneo, per stabilire quale sarà la religione di stato. Vengono invitati i rappresentanti delle varie religioni e l’ateo, che è il primo a parlare, seguito dai delegati delle religioni asiatiche per finire con quelle dei “popoli del Libro”. La salomonica decisione finale del Re coincide col mio modo di pensare: ognuno segua la religione che preferisce, senza imporre nulla agli altri.

Dal confronto emergono certo molte differenze tra le varie fedi, ma l’autore pone l’accento sui principi comuni, quelli più puri, contrari alla violenza, all’ipocrisia e al fanatismo che purtroppo osserviamo spesso nel passaggio dalla teoria alla pratica. Qualche frecciata non manca neanche in questo pacifico quanto utopico torneo, ma tutto sommato regna il rispetto e il più piccolo fanatismo viene messo subito a tacere. Una lettura che avrei voluto fare molto prima, in cui ho ritrovato molte delle idee che già coltivavo: lo consiglio a tutti coloro che hanno una mente aperta, desiderio di conoscere altri punti di vista e speranza che un giorno non ci si ammazzi più in nome di un dio o di un principio spirituale che dovrebbe recare gioia e pace.

di Massimo Acciai Baggiani

Firenze, 2 maggio 2021

Bibliografia

Keshavjee S., Il Re, il Saggio e il Buffone, Torino, Einaudi, 1998.

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Manzoni era un bigotto?

Di Massimo Acciai Baggiani

I-promessi-sposiLa risposta, a mio parere è: “ni”. Se per “bigotto” indichiamo «chi assiduamente e scrupolosamente osserva le pratiche del culto senza afferrarne l’intima essenza religiosa» (Google) o una «persona che ha una religiosità solo esteriore, non riscontrabile nei fatti» (Wikidizionario), certamente Alessandro Manzoni non era un bigotto. Lui ci credeva veramente alla Provvidenza e al messaggio cristiano (non sappiamo se anche nell’intimo, ma di sicuro nella sua immagine pubblica). Tuttavia se per “bigotto” intendiamo «persona o pensiero che mostra una grande religiosità unita ad altrettanta intolleranza e mancanza di flessibilità» (Wikidizionario) o «persona che mostra zelo esagerato più nelle pratiche esterne che nello spirito della religione, osservando con ostentazione e pignoleria tutte le regole del culto» (Treccani), Manzoni risponde in parte a questa definizione, ma non più dei suoi contemporanei. I personaggi de I promessi sposi, che mi sono riletto per l’ennesima volta durante questa quarantena da Covid-19, un capitolo al giorno[1], mostrano una grande varietà di intendere il sentimento religioso: completamente esteriore in Don Abbondio, portato alle estreme conseguenze in Fra’ Cristoforo.

Dopo averlo detestato a scuola, come la maggioranza degli studenti di ieri e di oggi, ho poi riscoperto questo romanzo celeberrimo (ma solo in Italia, all’estero non lo conosce nessuno) per conto mio, in una serie di letture, fatte a distanza di anni, che mi trovavano ogni volta “diverso” (e quindi capace di letture “diverse”). Questa del 2020 ho deciso che sarà la lettura “definitiva”, per me. D’altra parte le altre cose scritte dal Manzoni sono del tutto illeggibili, a partire dagli odiosi 5 maggio e Marzo 1821, costretti ad imparare a memoria sui banchi di scuola.

Molte le cose che sono state dette su questo libro, e molte quelle che vorrei chiosare io, a partire dalla lingua in cui è scritto, ma dovrei scriverne un libro a parte. Non è una lettura agevole. Non lo era quando è stato scritto – i «venticinque lettori» che aveva in mente il Manzoni erano persone colte, lombardi, in grado di comprendere (se non di parlare) una lingua che in Italia era prevalentemente scritta e padroneggiata da pochi[2]. Non è facile da leggere nemmeno oggi, anche se per motivi diversi. Io auspicherei una “traduzione” in lingua corrente, ma sarei lapidato da professori e puristi. Sull’attualizzazione linguistica ho le mie idee, abbiate pazienza: per me ha senso anche “tradurre” la Divina Commedia o il Decamerone, in alternativa al testo originale. Penso che una versione de I promessi sposi in italiano del XXI secolo sarebbe interessante da leggere, sicuramente più accattivante: in pratica un’operazione parallela a quella che il Manzoni finge di fare “riscrivendo” il manoscritto dell’anonimo secentista, che giudicava illeggibile dal punto di vista stilistico. Ecco, non si offenda il Manzoni se, a distanza di due secoli, possiamo dare un giudizio simile riguardo al suo italiano ottocentesco: anzi penso che avallerebbe questa riscrittura visto che lui stesso lo ha suggerito implicitamente riportando nella sua lingua un testo di due secoli prima.

A proposito, ricordo la bellissima ristampa anastatica della Mondadori di qualche anno fa. Quando ero studente universitario scoprii, grazie al prof. Toschi[3] che in genere le edizioni del capolavoro sono “monche”: manca l’apparato iconografico, le incisioni realizzate da Francesco Gonin con la supervisione dello stesso Manzoni. Leggere I promessi sposi senza illustrazioni è un po’ come ascoltare una canzone senza la musica: un ulteriore penalizzazione per gli studenti. I promessi sposi erano un romanzo illustrato, non dimentichiamolo, “multimediale” ante litteram.

Detto questo, perché è utile e piacevole leggere (o rileggere) questo vecchio romanzo ottocentesco anche ai tempi dei social e degli e-book, magari al di fuori degli obblighi scolastici? Le curatrici dell’edizione che mi letto durante la pandemia indicano i seguenti motivi:

  1. «il romanzo è bello»: sì, vero, premesso che il concetto di “bello” è soggettivo. È un romano appassionante, un meccanismo perfetto, se fosse un’auto sarebbe una “fuoriserie” (riprendo l’immagine dalle curatrici). Trovo però un peccato che il Manzoni abbia eliminato molti degli elementi gotici presenti nel Fermo e Lucia, (a me piace il gotico…).
  2. «è ancora attuale»: in effetti in questo periodo di pandemia il pensiero non può che andare alla peste di Milano di quattro secoli fa, e trovare perfino inquietanti parallelismi (anche allora c’erano i “complottisti” e i “negazionisti” – Don Ferrante, la caccia agli untori, eccetera, e anche allora il governo è intervenuto in ritardo e ha commesso vari errori). Questo facile confronto ha cominciato a riecheggiare nei media fin dall’inizio del lockdown (termine che non sarebbe piaciuto al Manzoni), ma al di là di questo aspetto contingente il romanzo è sempre attuale perché presenta degli archetipi, dei personaggi uguali in tutte le epoche storiche. Quanti Abbondi e Rodrighi conosciamo ancora oggi?
  3. «è un romanzo perfettamente costruito»: non a caso ci ha lavorato per decenni, il nostro Manzoni; c’è una perfezione ammirevole, un respiro così ampio e un equilibrio che stupisce ancora oggi. Punti deboli: i capitoli-saggio in cui si dilunga su questioni storiche che oltre a risultare ostiche e di scarso interesse, sono anche prolisse: i capitoli 31 e 32 sono illeggibili, si potrebbero togliere e la storia ne gioverebbe.

La storia è nota a tutti, quindi non c’è bisogno di spoilerarla né di soffermarmici: la do per scontata. Vorrei però passare in rassegna i personaggi più importanti con le mie impressioni:

1) Don Abbondio, che entra in scena per primo. È uno dei personaggi più interessanti: il Manzoni ha parole aspre per lui, tramite la bocca del cardinale Federigo, ma in fondo anche di affetto. È tragicomico: un uomo nato nel secolo sbagliato (ma forse se fosse nato ai nostri giorni si sarebbe fatto prete comunque), un vaso di coccio che viaggia insieme a vasi di ferro, stando in continua apprensione. Non è cattivo: quanti di noi davanti ai bravi avrebbero reagito diversamente? Per lui salvare la pelle è la cosa più importante: in questo posso comprenderlo in pieno, in quando la vita che abbiamo è una ed è l’unica cosa veramente preziosa. Cavoli, lo stavano minacciando di morte! Io avrei fatto altrettanto, lo confesso senza ipocrisie. Non amo i martiri; li rispetto ma non comprendo la loro filosofia. Se il mondo fosse popolato solo dal modello “Abbondio”, seguace del “vivi e lascia vivere”, sarebbe certo un mondo migliore, senza guerre e prepotenze, ma purtroppo il mondo è ben diverso e così abbiamo bisogno di eroi (che ammiro ma con cui non mi identifico).

2) Renzo, ragazzo simpatico ma ingenuo nei momenti sbagliati. Nel finale elenca diverse cose che non rifarebbe, e ci auguriamo che abbia imparato la lezione. Di lui mi piace la sua sete di giustizia, che alcuni contestano essere sete di “vendetta”: ma per me le due parole indicano lo stesso concetto. Fossi stato Renzo avrei mandato a quel paese Fra Cristoforo e sarei andato diretto da Don Rodrigo per farlo fuori… dopo aver preparato però un piano adeguato. Non sarei stato così impulsivo, quello no.

4) Di Don Rodrigo non si può dire altro che era un bullo scemo, ma non più della maggioranza dei suoi compagni “nobili” dell’epoca (e anche dei “potenti” di oggi); su di lui non c’è molto altro da dire, non mi fa pena nemmeno quando viene colpito dalla peste.

5) Fra’ Cristoforo ha dei tratti che me lo rendono simpatico (il difendere gli umili, il dare addosso ai prepotenti) e altri che proprio non capisco e non approvo: quando, nel capitolo 35 incontra Renzo nel lazzaretto lo “costringe” non solo a perdonare il suo aguzzino, Don Rodrigo, ma addirittura ad “amarlo”. Come si possa amare a comando, per di più uno che ti ha rovinato la vita, questo rimane un mistero che il Manzoni non spiega. Nemmeno Cristoforo lo spiega: dà per scontato che sia così. Come il cardinale Borromeo, anche Cristoforo pretende dagli altri la stessa inflessibilità, lo stesso rigore, con cui hanno forgiato la propria vita. Alla fine dei tratti di prepotenza, retaggio della sua antica vita da nobile, rispuntano fuori nel pretendere che gli altri la vedano come lui; perciò lo trovo un personaggio ambiguo per cui non riesco a provare una simpatia senza riserve. D’altronde lo stesso narratore, nella chiusura del romanzo, chiede si suoi “25 lettori” di voler bene all’autore secentesco e al narratore stesso (che sappiamo essere la stessa persona); si può dire che se l’opera ci è piaciuta non c’è bisogno di questa richiesta, e se non c’è piaciuta accettiamo comunque le scuse che – per pararsi il culo – Manzoni mette proprio nell’ultima frase come “captatio benevolentiae”.

6) Gertrude, la Monaca di Monza, è certo una povera disgraziata, a cui il Manzoni avrebbe consigliato di rassegnarsi alla sua monacazione forzata e a trovare conforto nella stessa fede – che nelle sue condizioni avrebbe perso anche una santa. Il Manzoni ovviamente disapprova la violenza psicologica del padre di Gertrude, ma non disapprova ciò che era assolutamente normale nel ‘600, nell’800 e perfino ai giorni nostri tra le famiglie cattoliche: imporre la propria religione ai figli. Gli stessi Renzo e Lucia faranno altrettanto, allevando nel “timor di Dio” la loro numerosa prole, come su ordine (più che consiglio) di fra’ Cristoforo morente nel lazzaretto. Parlare di libertà di culto era fuori luogo per Manzoni, anche per questo non metto un “no” netto sulla domanda iniziale sulla sua bigottaggine. Gertrude ha fatto bene a venire meno ai voti di castità pronunciati contro la sua volontà, magari poteva scegliersi un soggetto meno losco rispetto ad Egidio per romperli…

7) L’Innominato mi dà lo spunto per una riflessione sui “cattivi” che diventano “buoni”. È una cosa rara in letteratura: di solito i cattivi fanno una brutta fine e anche se puniti non si pentono affatto, anzi. Qualche volta trionfano pure (come accade spesso nella realtà). Personalmente godo quando il cattivo di turno ha quel che si merita, ma godrei ancora di più se si pentisse e rimediasse al male fatto: perciò il personaggio dell’Innominato mi piace, anche perché non si limita a pentirsi formalmente (quello riesce a tutti, se non si deve pagare per i propri errori) ma si dà attivamente da fare per rimediare. La trovo una cosa bellissima, l’episodio più bello del romanzo, ma anche utopica: le persone, nella realtà ma anche in letteratura, non cambiano così radicalmente, purtroppo. È più frequente anzi che i buoni diventino cattivi che viceversa.

8) il personaggio comunque più “bigotto” è senza dubbio Lucia, la «madonnina infilzata»; immagino come dev’essere l’intimità tra lei e Renzo, anche se nell’ultimo capitolo si arguisce che il sesso non sia mancato (la prole è numerosa), ma a letto mi sa che era una che “lo faceva solo per dovere”.

Tornando alla questione iniziale, Manzoni, con tutta la sua intelligenza e sensibilità, è figlio del suo tempo: nell’Europa dell’Ottocento, per molti versi simile a quella del Seicento, ci si poteva ancora scannare per motivi religiosi[4]. Non che all’epoca non esistessero pensatori materialisti (ce n’erano perfino nel XVII secolo: i “libertini” Cyrano de Bergerac, Gabriel Naudé e Gassendi, per fare qualche nome) ma accettare che l’altro adori un altro dio o, peggio ancora, sia ateo, era chiedere troppo a un uomo di quell’epoca (e anche a molti uomini e donne di oggi, purtroppo). Con Manzoni non credo sarebbe stato possibile parlare di ateismo: con penso proprio che avrei potuto intavolare un dialogo con lui se, grazie a una macchina del tempo, me lo fossi trovato davanti. E poi, alla fine, i promessi sposi non potevano andarsi a sposare altrove, da qualche altro prete, senza create tanti «imbrogli»?

Firenze, 7 maggio 2020

Note

[1] Nell’edizione scolastica a cura di Daniela Ciocca e Tina Ferri (A.Mondadori scuola, 2009).

[2] Il “popolo italiano”, non ancora unito politicamente, parlava gli innumerevoli dialetti: la Questione della Lingua si sarebbe proposta all’indomani dell’Unità, e avrebbe chiamato in causa lo stesso Manzoni

[3] Con cui mi sono laureato.

[4] Come oggi avviene in contesti di fanatismo islamico o induista.

Alcune riflessioni su guerre e genocidi

Di Massimo Acciai Baggiani

marainiTra i molti libri letti durante la quarantena, un romanzo di Dacia Maraini mi ha dato l’occasione per mettere per scritto alcune riflessioni su tematiche toccate dalla storia, ambientata in Europa in piena guerra fredda. Il treno dell’ultima notte non è un libro per stomaci delicati: la Maraini non risparmia al lettore che, come la protagonista, «vuole mettere il naso nella merda»[1], nessuno degli orrori dei lager nazisti o dei regimi cosiddetti “comunisti”, «cose talmente vere che sembrano finte, talmente vere che diventano sublimi nella loro irrealtà.»[2] tanto che anche noi lettori ne siamo sconvolti, ci sentiamo in qualche modo incapaci di capire fino in fondo l’orrore, perfino vagamente colpevoli anche se siamo nati decenni dopo quell’epoca oscura. Quando si pensa di esserci abituati alla narrazione dei crimini del nazismo, capita di leggere un libro come questo e di esserne ancora scossi.

La storia è quella di un viaggio all’inferno: non quello dantesco nell’aldilà, ma quello di Amara, giornalista italiana ossessionata dalla ricerca di Emanuele, antico compagno di giochi d’infanzia, primo amore, scomparso come tanti ebrei nell’orrore della seconda guerra mondiale. Amara vive a Firenze, nel mio stesso quartiere, Rifredi: molti sono i luoghi citati a me familiari (via Alderotti, Villa Lorenzi, via degli Incontri, piazza Dalmazia, il Terzolle… ma anche il mio amato Monte Morello).

Amara è stata appena sfiorata dalla guerra (anche se pure lei ha fatto la fame); si è poi rifatta una vita, si è sposata, ma non ha mai dimenticato Emanuele, la cui famiglia benestante ha avuto la poco brillante idea di tornare a Vienna (da cui molti ebrei fuggivano) proprio durante le persecuzioni razziali, sicura della propria intoccabilità aristocratica. Adesso, Amara è una donna e fa la giornalista: può attraversare confini. Il viaggio la porta, in piena guerra fredda, oltre cortina, da Auschwitz a Vienna e da qui a Budapest, dove capita alla vigilia della rivoluzione ungherese del 1956 – e come giornalista mancherà lo “scoop” a causa delle difficoltà di comunicazioni col suo giornale in Italia – in un’Europa dell’Est ancora ferita, sotto un regime non meno sanguinario di quello da poco sconfitto. Amara incontrerà due uomini che la aiuteranno nella sua ricerca disperata che, suo malgrado, giungerà a una conclusione: non quella sperata purtroppo. Emanuele è morto e sepolto: al suo posto c’è un uomo distrutto, imbestialito, che non ha mai saputo superare il trauma di Dachau.

Manca insomma il lieto fine: non può esserci, dal lager non se ne esce vivi neppure se si viene salvati – come già dimostrato da Primo Levi. Si è comunque morti dentro. L’orrore è assoluto. Ancora oggi gli ebrei giustamente ci tengono a che non venga mai dimenticato – anche se molti hanno la memoria corta e le nuove generazioni pare non abbiano imparato molto dai padri. Il 27 gennaio, Giorno della Memoria, è dedicato al Genocidio per antonomasia, la Shoah, l’Olocausto. Guai a dimenticarlo, o aggiungere postille, altrimenti si viene tacciati come minimo di antisemitismo, se non proprio di nazismo.

Dopo la lettura del romanzo della Maraini – come dopo qualsiasi testimonianza dei lager (da Se questo è un uomo a Schindler’s list) non sarebbe però male prendere una qualsiasi Bibbia e aprirla a Deuteronomio 7,1-5:

«Quando il SIGNORE, il tuo Dio, ti avrà introdotto nel paese che vai a prendere in possesso, e avrai scacciato molti popoli: gli Ittiti, i Ghirgasei, gli Amorei, i Cananei, i Ferezei, gli Ivvei e i Gebusei, sette popoli più grandi e più potenti di te; quando il SIGNORE, il tuo Dio, li avrà dati in tuo potere e tu li avrai sconfitti, tu li voterai allo sterminio[3]; non farai alleanza con loro e non farai loro grazia. Non t’imparenterai con loro, non darai le tue figlie ai loro figli e non prenderai le loro figlie per i tuoi figli, perché distoglierebbero da me i tuoi figli che servirebbero dèi stranieri e l’ira del SIGNORE si accenderebbe contro di voi. Egli ben presto vi distruggerebbe. Invece farete loro così: demolirete i loro altari, spezzerete le loro statue, abbatterete i loro idoli d’Astarte e darete alle fiamme le loro immagini scolpite.»

Cosa vorresti insinuare? Mi domanderebbe qualcuno, non necessariamente ebreo. Vorresti dire forse che la Shoah è stata una sorta di punizione karmica per l’antico genocidio biblico dei cananei e compagnia bella?

Sarebbe una lettura un po’ banale e comunque fuorviante. Non credo nel karma collettivo; penso che ognuno abbia solo il proprio karma personale, ed è più che sufficiente. Gli ebrei del XX secolo non erano fisicamente gli stessi che uccidevano donne e bambini in “terra santa”, né lo avrebbero mai fatto. La stragrande maggioranza degli ebrei di oggi, come di quelli del secolo scorso, è composta da brava gente, poco ortodossa, pacifica e priva di fanatismo: un po’ come i cattolici. Sì, ci sono anche i fanatici, come in qualsiasi gruppo umano, ma sono pochi e non fanno testo. Pochi tra i cattolici hanno letto il Deuteronomio, così come non tutti gli ebrei conoscono o approvano la Torah (nascere ebreo è un fatto etnico, non una scelta religiosa: se si ha la sfiga di nascere tra ebrei osservanti si subisce una mutilazione genitale da piccoli, ma c’è a chi va peggio… ad esempio a chi nasce femmina in un paese islamico): a coloro però che condannano la Shoah e approvano i genocidi compiuti dai propri antenati, dico solo che non fanno un buon servizio alla propria causa. Non vedo una grande differenza tra il credo ariano della “razza superiore” e quella del “popolo eletto” promossa dagli ebrei antichi e da quelli moderni che bombardano i palestinesi in nome della medesima “terra promessa”[4].

Io non credo nei genocidi di serie A e in quelli di serie B: un genocidio è unico, e non può avere mai alcuna giustificazione. Ma è corretto dunque accostare uno sterminio avvenuto millenni fa ad uno accaduto nella “civilissima” Europa del XX secolo, dopo l’Illuminismo, la Rivoluzione Francese e Americana, e poco prima della Dichiarazione universale dei diritti umani? A chi si è posto la mia stessa domanda – ebbene sì, non sono il primo – è stato risposto con un NO secco. Un bambino trucidato tremila anni fa non vale un bambino gasato ottanta anni fa. Era un altro mondo, quello in cui agivano gli ebrei veterotestamentari: altri valori, altra considerazione della vita umana. Bene, sono d’accordo: nel 1000 a.C. un genocidio era normale amministrazione, non si scandalizzava nessuno. Perché dovremmo scandalizzarci, oggi, se un dio “misericordioso” ordinò al proprio popolo di cancellarne altri sette? Risponderei: per la stessa ragione per cui oggi ci scandalizziamo se decine di milioni di ebrei (e omosessuali, e zingari, e comunisti, ed esperantisti…) sono stati assassinati e ridotti in cenere. Perché la vita umana è sempre sacra. È più sacra di qualsiasi culto, di qualsiasi nazionalismo, di qualsiasi bandiera, di qualsiasi ideale. Uno degli argomenti più forti con cui sostengo il mio ateismo e il mio antifascismo è proprio questo: un dio buono non avrebbe mai permesso un singolo omicidio, figuriamoci quello di un intero popolo, e figuriamoci poi ancora di più se ordinato dallo stesso dio.

Il discorso si potrebbe ampliare agli innumerevoli genocidi e alle altrettanto innumerevoli guerre della Storia nota – gli armeni, gli indios, gli indiani d’America, i catari, e chi più ne ha più ne metta – ma penso di aver chiarito il punto. Una guerra giusta non esiste. Solo il giorno in cui non esisteranno più “popoli” – ebrei, islamici, italiani, americani, africani, eccetera – ma ci sarà un unico grande “popolo”, quello “umano”, anzi quello degli “esseri senzienti”, solo allora e non prima si potrà parlare di “giustizia” anche in concreto. L’uomo vedrà mai quel giorno? Solo se saprà vincere la sua oscurità e saprà riconoscere se stesso nell’altro, se si sentirà parte integrante dell’universo intero, se capirà che fare del male agli altri è in fondo farlo a se stesso… solo allora l’uomo sarà divenuto simile a una divinità, ma certo non quella hitleriana dell’Antico Testamento o delle altre religioni teiste. Spiace dirlo, ma è così. Io credo che l’uomo si meriti questo futuro luminoso, fintanto che sulla terra esisteranno dei sognatori.

Firenze, 21 aprile 2020

Bibliografia

Maraini M., Il treno dell’ultima notte, Milano, Rizzoli, 2010.

Note

[1] Maraini M., Il treno dell’ultima notte, Milano, Rizzoli, 2010, p. 413.

[2] Ibidem.

[3] Il corsivo è mio.

[4] A pag. 144-145 del romanzo della Maraini c’è un’interessante “confessione” di alcuni ebrei ritornati da Israele che, pur non rinnegando la loro fede ebraica e sostenendo le ragioni del proprio popolo, mettono in discussione la soluzione armata alla questione palestinese, usando esplicitamente la parola “invasione”.

Il guru

Di Massimo Acciai Baggiani

 

In un discorso del 21 agosto 1974 Bhagwan Shree Rajneesh (più noto come Osho) parlava della necessità, da parte del discepolo, di affidarsi completamente al Maestro, di avere in lui una fiducia totale, altrimenti la “realizzazione” è impossibile1. Fidarsi. Ciecamente.

Lo stesso concetto è ribadito anche da altri “guru” che nel secolo scorso dalla “spirituale” ma sfigatissima India si sono trasferiti nell’“opulento” e “materialista” Occidente (soprattutto negli USA): ad esempio Paramahansa Yogananda2 e Śrīla Prabhupāda3 (che, come Osho, hanno dato vita ad organizzazioni di successo) pretendono dai loro adepti assoluta obbedienza (in particolare Prabhupāda, fondatore dell’ISKON e Maestro di quei personaggi bizzarri che percorrono le strade cantando «Hare Krishna, hare Krishna…» con abiti arancioni e la testa rasata, durante l’iniziazione richiede di essere adorato come Dio4). La regola dell’obbedienza non è tuttavia prerogativa soltanto dei santoni orientali: ne abbiamo vari esempi anche nelle tradizioni monoteiste occidentali e del Medio Oriente. «Abbandonarsi», «Vincere ogni dubbio», «fare tutto ciò che richiede il Maestro».

In un discorso tenuto qualche giorno dopo (e riportato nello stesso libro) Osho riconosce tuttavia che distinguere tra un vero guru e uno falso è la questione più «imbarazzante» che si pone in campo spirituale da tempi immemorabili: prima di affidarmi totalmente a un maestro spirituale devo sapere con certezza che si tratta di un autentico guru e non di un ciarlatano, ma come faccio a saperlo se parto già col dubbio e quindi non mi affido totalmente? In altre parole: un circolo vizioso.

Per quanto mi riguarda, io non mi fido ciecamente di nessuno, se non sono costretto dalle circostanze (ad esempio se dovessi subire un intervento chirurgico, penso che dovrei fidarmi, gioco forza, di chi lo effettuerebbe). Non mi realizzerò spiritualmente, forse, ma almeno non rischio di farmi raggirare. Tuttavia, se proprio dovessi affidarmi a qualcuno penso che sarebbe piuttosto semplice riconoscere un impostore, più semplice di quanto si pensi. Basta usare il buon senso.

Se il guru chiede soldi, ad esempio, magari un campanello d’allarme mi scatta (quindi, caro Ron Hubbard, non sarò mai dei tuoi) oppure se semina odio verso chi ha un orientamento sessuale diverso dal mio, o una diversa fede, o ha atteggiamenti sessuofobi o razzisti, anche in questi casi posso anche ascoltare ciò che ha da dire ma mi guardo bene di affidargli completamente la mia vita o la mia “anima” (quindi sono esclusi i monoteismi basati sulla Bibbia, la Torah e il Corano). Anche se impone dei “precetti” e limita in qualche modo la mia libertà (il cui unico limite è il rispetto della libertà altrui, per dirla con Voltaire) imponendomi una certa dieta, un certo abbigliamento, un certo comportamento sessuale (chissà perché tutte le religioni sono ossessionate, in misura maggiore o minore, dal sesso), cosa leggere o non leggere, se e cosa guardare al cinema o in TV, come curarmi, eccetera… beh, no grazie, ho un cervello e un libero arbitrio e preferisco non rinunciarvi se il guru non mi convince.

Quale guru dunque mi convince?

Sarei tentato di rispondere «nessuno», quantomeno non mi affiderei ciecamente a nessuno, anche perché spesso i sedicenti guru si contraddicono (lo stesso Osho prima invita ad affidarsi al Maestro, poi invita a non seguirlo…) e comunque affidarsi completamente è pericoloso. Si rischia il fanatismo. Si rischia di ritrovarsi, nel peggiore dei casi, con dell’esplosivo legato addosso, su un furgone a spiaccicare passanti e farsi abbattere dalle forze dell’ordine o su un aereo in rotta di collisione con qualche luogo affollato, o magari a ingurgitare del veleno in un suicidio di massa. Nel migliore dei casi si rischia di ritrovarsi alleggeriti di un po’ di denaro e fare la figura dei fessi.

È vero che da anni seguo in effetti un Maestro: tuttavia “sensei” Ikeda, terzo presidente della Soka Gakkai, non ha mai imposto nulla ai suoi discepoli (anche se si fidava ciecamente del suo Maestro, Toda, il quale a sua volta aveva la stessa devozione per Makiguchi, il primo presidente). Il buddismo – questa è una delle prime cose che mi hanno attratto di esso – è Libertà. Non viene imposto neppure di smettere di fumare (su questo argomento ho già scritto un lungo articolo5): sarà il karma a mostrare al fumatore i danni del suo vizio: lasciatemi comunque rilevare la non coerenza del “buddista” fumatore, così come del “buddista” drogato o che ama sfoggiare abiti firmati o macchine sportive da centinaia di migliaia di euro (Osho, ricordiamolo, era noto come il «guru delle Rolls-Royce» mentre i suoi discepoli vivevano nella povertà, ma conosco anche membri della Gakkai che possiedono Porche o Ferrari).

Lasciatemelo solo rimarcare, non certo impedire questi comportamenti incoerenti. Perfino il Dalai Lama ha manifestato atteggiamenti un po’ impositivi (la seguente affermazione, ad esempio, mi ha lasciato alquanto perplesso: «La pratica della compassione è obbligatoria per chiunque e, se fossi un dittatore, imporrei a tutti di agire così».6).

Nessuna imposizione dunque, nessun guru da adorare come una divinità o come un suo rappresentante terreno. Il “guru”, autoinvestendosi di questo potere sugli adepti, dimostra già di essere un impostore. Avere un atteggiamento di superiorità, guardare gli altri dal basso verso l’alto, imporre la propria fede sono indizi ben chiari, ai miei occhi, di ciò che un Maestro NON è. Dunque ne restano pochi di veri maestri, a ben vedere, e magari sono proprio quelli che non vogliono insegnare nulla a nessuno, che vivono nell’ombra, lontano dai riflettori, insegnando indirettamente e inconsapevolmente col loro esempio più che con le parole. Sto cominciando a pensare che il vero guru sia una contraddizione in termini, un doloroso ossimoro: certo, sarebbe bello – e comodo – affidarmi a qualcuno che sia degno della mia fiducia, ma dovrei conoscere talmente bene quella persona che per giudicarla correttamente dovrei essere un illuminato a mia volta, e quindi sarebbe inutile a quel punto farmi guidare da un altro.

Intanto che cerco di sciogliere questo nodo gordiano (invano, temo, visto che l’umanità ci ha provato per innumerevoli generazioni) mi affido a ciò di cui sono sicuro, ossia al fatto che la Libertà sia una cosa buona. A tal proposito mi viene in mente una recente conversazione avuta con un testimone di Geova, all’ombra di un alberello in piazza Dalmazia in un’afosa mattinata di inizio estate:

«Lei si ritiene libero?» faccio io, fissandolo negli occhi.

«Sì certo.»

«E cos’è dunque la Libertà?»

«È quella di scegliere Geova Dio.»

«E obbedire ciecamente ai suoi ordini? Magari uccidere dei bambini indifesi?»

«Fare ciò che ci comanda, sì. Se Geova ha ordinato l’uccisione dei bambini cananei avrà avuto le Sue buone ragioni.»

«Dunque lei è un burattino nelle mani del suo dio?»

«Ma come si permette??!»

«La mia non era un’affermazione, era una domanda.»

Riacquista la calma. Cerca un passo dalla sua Bibbia, anzi dalla Traduzione del Nuovo Mondo delle Sacre Scritture, e mi cita:

«Non appartiene all’uomo terreno la sua via. Non appartiene all’uomo che cammina nemmeno di dirigere il suo passo7

«E dov’è qui il libero arbitrio? L’Uomo dunque è libero?»

«No, l’Uomo non è libero.»

«Capisco. Arrivederci.»

Il guru spesso di dichiara portavoce di qualche divinità, salvo poi comportarsi verso i propri adepti come la divinità che sostiene di rappresentare. Alcuni possono essere in buona fede, certo, non sono tutti assetati di potere, denaro e sesso: ma la domanda sul come riconoscere un vero guru resta insoluta anche scartando quelli che hanno scritto libri su come liberarsi dalle illusioni di maya (e cadere in altre illusioni più pericolose) o hanno lasciato insegnamenti orali alle masse; insegnamenti spesso contraffatti o traditi nelle interpretazioni dei loro esegeti.

Appurata dunque, secondo me, l’impossibilità logica (e il rischio) di fidarsi completamente di qualcuno che non si conosce a fondo, resto dell’idea che è bene sentire tante campane diverse, ascoltare tanti “guru”, ma poi fare sempre e soltanto di testa propria, prendendo il buono da ciascuno insegnamento come l’ape dai molteplici fiori (metafora usata dai filosofi antichi, che mi è sempre piaciuta), mettendo sempre il buonsenso sopra di tutti: rispettare tutti, non imporre né farsi imporre niente, vivere e lasciar vivere.

 

Firenze, 30 giugno 2018

 

Note

  1. Osho, Il seme della ribellione, vol. 1, Tradate, Oshoba Libri, 2000, pp. 13-35.
  2. Paramahansa Yogananda, Autobiografia di uno yogi, Astrolabio, 1971.
  3. Satsvarūpa dāsa Goswami, Śrīla Prabhupāda, The Bhaktivedanta Book Trust International, 1994.
  4. Ivi, pp. 99-100.
  5. Massimo Acciai Baggiani, Buddismo e dipendenze, in «Segreti di Pulcinella» n. 46, gennaio 2015.
  6. Dalai Lama, La via della tranquillità, Milano, BUR, 2003, p. 30.
  7. Ger. 10, 23.