Palomar in Esperanto

Di Massimo Acciai Baggiani

Palomar, uno degli ultimi libri di Italo Calvino (1923-1985) pubblicati mentre l’autore era ancora in vita, non è certo un libro facile: tanto di cappello a Nicolino Rossi per la sua traduzione in esperanto, per aver reso nella lingua internazionale la prosa complessa dello scrittore italiano di cui cadeva un anno fa il centenario della nascita. Proprio per celebrare questa importante ricorrenza la FEI ha deciso di pubblicare questo volume, e ha fatto bene: Nicolino Rossi, nome importante nella letteratura Esperanto, ha fatto un ottimo lavoro, spingendo la lingua fino alle sue estreme capacità espressive, così come ha dovuto fare nel tradurre e pubblicare, sempre nel 2023, la traduzione delle Cosmicomiche.

Italo Calvino non ha certo bisogno di presentazioni per il pubblico italiano, ma forse è utile dire qualche parola su di lui per il pubblico esperantista straniero. Nato a Cuba 101 anni fa, Calvino inizia la sua carriera letteraria negli anni Quaranta con il romanzo neorealista Il sentiero dei nidi di ragno. Seguono nel decennio successivo tre romanzi di genere fantastico-surreale, noti come La trilogia dei nostri antenati (Il visconte dimezzato, Il barone rampante, Il cavaliere inesistente) che sono dei veri e propri classici. Negli anni Sessanta escono le novelle di Marcovaldo e le già citate Cosmicomiche, mentre per gli anni Settanta vanno ricordati almeno Le città invisibili e Se una notte d’inverno un viaggiatore. Calvino muore a Castiglione della Pescaia per un ictus nel 1985.

Palomar, dicevamo, è un libro difficile: va gustato a piccole dosi, centellinato come buon vino. Ogni capitolo/racconto, per quanto breve, è denso di riflessioni filosofiche sull’universo di cui il protagonista cerca la chiave nascosta per comprenderne il senso profondo: così in una singola onda che increspa il mare, nel fischio di un merlo, nell’accoppiamento di due tartarughe in giardino, perfino nel riflesso del sole il signor Palomar – che deve il suo nome al celebre osservatorio sull’omonimo monte negli Stati Uniti – cerca il segreto finale del tutto, ma essendo un tipo piuttosto nervoso e non provvisto della necessaria pazienza, fallisce ogni volta nel suo scopo e si ritrova più confuso e perplesso di prima.

Le avventure filosofiche di Palomar non mancano di un certo fine umorismo che le rende leggere (la Leggerezza è non a caso una delle qualità della scrittura di cui Calvino tesse le lodi nelle postume Lezioni americane, altro libro che varrebbe la pena tradurre in Esperanto) ma riconducono a una certa amarezza di fondo, perché questo senso, se mai esiste, continua a sfuggire.

Firenze, 26 marzo 2024

Bibliografia

Calvino I., Palomar, Milano, Federazione esperantista italiana, 2023.

La figura del lupo in Cappuccetto Rosso e in altre fiabe italiane analoghe

Di Massimo Acciai Baggiani

Il lupo assume un ruolo per lo più negativo nelle fiabe, in particolare nella stranota vicenda di Cappuccetto rosso, dove appare metaforicamente in veste di seduttore di bambine ingenue. Due sono le versioni più popolari della celebre fiaba: quella di Charles Perrault (1628-1703) del 1697, e quella, di oltre un secolo posteriore, dei fratelli Jacob Ludwig (1785-1863) e Wilhelm Karl Grimm (1786-1859).

La prima è da considerarsi, secondo Bruno Bettelheim (1903-1990), meno interessante e meno “utile” rispetto alla seconda; Perrault ha banalizzato la storia e ne ha resa troppo esplicita la morale – ossia la raccomandazione, rivolta alle bambine, di non dare confidenze agli sconosciuti, soprattutto a quelli gentili e “seducenti”. La versione di Perrault, in cui alla fine la protagonista muore inghiottita dal lupo, lascia poco spazio all’immaginazione dei piccoli ascoltatori [1]: la scena in cui la piccola si spoglia, su invito del lupo, per andare a letto con lui, è troppo esplicita e allontana l’identificazione del lettore (il fatto che si presti senza reagire a questo tentativo di seduzione può essere interpretato come stupidità oppure come desiderio di essere sedotta).

I fratelli Grimm d’altro canto presentano una doppia versione [2] più complessa e affascinante, ricca di simbologie non così esplicite. Rimane, certo, centrarle il tema della paura di essere divorati (come anche in un’altra celebre fiaba, quella di Hänsel e Gretel) come metafora sessuale. Cappuccetto rosso è una bambina ingenua, che non teme il mondo e anzi ne viene sedotta dalla bellezza (si attarda a raccogliere fiori nonostante le raccomandazioni della madre), il che la espone al pericolo; seguire il principio di piacere anziché quello di realtà (le raccomandazioni materne) la porterà a farsi ingannare dal lupo (la parte animalesca del maschio, contrapposta a quella paterna e salvatrice rappresentata dal cacciatore). Non si può rimanere ingenui per tutta la vita, anche se l’ingenuità è un tratto che affascina.

Il rosso del cappuccio della protagonista «simboleggia le emozioni violente, naturalmente comprese quelle sessuali» [3]

Leggendo questa fiaba viene naturale chiedersi perché il lupo non “divori” subito la bambina appena la incontra nel bosco, anziché divorare prima la nonna (che è anche simbolo della madre). Perrault giustifica la cosa con la presenza, nel bosco, di altri uomini (i taglialegna) mentre nella versione dei Grimm emerge la necessità di sbarazzarsi prima della nonna/madre per godere appieno della sua conquista; è presente il riferimento al desiderio inconscio della figlia di essere sedotta da suo padre (il lupo)» [4]. L’atto sessuale viene visto dai bambini con un senso ambivalente di attrazione e repulsione, in quanto percepito come un atto di violenza ma anche di piacere: si veda la famosa illustrazione di Gustave Doré (1832-1883) che ritraee la bambina a letto con il lupo; mentre quest’ultimo appare tranquillo, Cappuccetto rosso è turbata da sentimenti ambivalenti, anche se le implicazioni sessuali rimangono preconsce, come è giusto.

Illustrazione di Gustave Doré per Cappuccetto Rosso

L’altra figura maschile, il cacciatore, è di segno diametricalmente opposta. Rappresenta il padre non nel lato seduttivo ma in quello salvifico e punitivo, il che esercita un grande fascino nei giovani lettori. Salva nonna e nipote sventrando il lupo e riempiendone lo stomaco di sassi, che poi lo uccideranno: nella mente del bambino l’uscita della protagonista dalla pancia è collegata inconsciamente al parto (al taglio cesareo) in quanto ipotizza che la madre sia rimasta incinta inghiottendo qualcosa. Perciò il lupo non muore durante lo sventramento: il bambino potrebbe associare il parto alla morte della madre e restarne traumatizzato. Questo “parto” simboleggia una rinascita a un livello superiore: la protagonista, benché inghiottita, non muore veramente ma si prepara a una seconda nascita, tornando in vita come una persona diversa. Il bambino capisce immediatamente questo processo di maturazione: «Cappuccetto Rosso perse l’innocenza dell’infanzia (…) e ne ebbe in cambio la saggezza che soltanto chi è “nato due volte” può possedere» [5].

La celebre fiaba ha avuto molte traduzioni, sia nella versione francese di Perrault che in quella tedesca dei Grimm. Riporto qui l’incipit in esperanto di Perrault (La Ruĝa-Ĉapeto) presente in rete, e a seguire l’incipit della versione, in esperanto, dei fratelli Grimm (Ruĝa Ĉapeto):

Estis iam en vilaĝo knabineto la plej bela kiun oni povis vidi; ŝia patrino kaj ankoraŭ pli ŝia avino amis ŝin ĝis freneziĝo. Tiu ĉi bona virino farigis al ŝi ruĝan ĉapeton, kiu plibeligis ŝin tiel, ke ĉie oni vokis ŝin: La Ruĝa-Ĉapeto.

En unu tago ŝia patrino farinte platajn kukojn, diris al ŝi: „Iru vidi kiel fartas via avino, oni diris al mi, ke ŝi estas malsana, portu al ŝi platan kukon, kaj tiun ĉi poteton da butero.“ La Ruĝa-Ĉapeto foriris tuj al ŝia avino, kiu loĝis en alia vilaĝo.

Transirante arbaron, ŝi renkontis Sinjoron Lupon, kiu forte deziris manĝi ŝin sed ne kuraĝis pro kelkaj arbohakistoj kiuj estis en la arbaro; li demandis ŝin kien ŝi iras. La malfeliĉa infanino ne scianta la danĝeron paroli kun Lupo, diris al li: „Mi iras viziti mian avinon kaj porti al ŝi platan kukon kaj poteton da butero, kiujn mia patrino al ŝi sendas. [6]

Iam estis dolĉa knabineto, kiun ĉiuj amis, kiu nur rigardis ŝin, sed ĉefe ŝia avino, kiu eĉ ne sciis, kion donaci al la infano. Iam ŝi donacis al ŝi kapuĉeton el ruĝa velura, kaj ĉar ĝi taŭgis al ŝi tiel bone kaj ĉar ŝi ne volis surhavi nenion ol ĝin, oni nomis ŝin nur Ruĝa Ĉapeto.
Iutage ŝia patrino diris al ŝi: “Venu, Ruĝa Ĉapeto, ĉi tie vi havas pecon da kuko kaj botelon da vino, alportu tion al via avino; ŝi estas malsana kaj malforta kaj ŝi refreŝiĝos per ili. Ekiru antaŭ ol ekvarmos, kaj kiam vi eliros, iru bele kaj bonkondute kaj ne forkuru de la vojo, alie vi falos kaj rompos la vitron kaj la avino havas nenion. Kaj kiam vi eniros ŝian loĝĉambron, ne forgesu diri bonan matenon kaj ne rigardu unue en ĉiujn angulojn!

Tra le fiabe italiane raccolte da Italo Calvino (1923-1985), a ragione considerato l’equivalente italiano dei fratelli Grimm, ho scelto tre brevi testi in cui ricompare la figura del lupo e della nonna e della mamma: Tre ragazze e il lupo (fiaba 26), Zio lupo (49)e La finta nonna (116).

La prima fiaba, raccontata dalle parti del Lago di Garda, vede tre sorelle alle prese col lupo goloso, che a differenza della fiaba dei Grimm, è più interessato a mangiare torte che carne umana (ma la simbologia è la stessa). Al posto della nonna, troviamo la mamma delle ragazze: la donna viene ingoiata e il lupo si mette a letto in attesa della minore, certo più sveglia di Cappuccetto rosso, la quale aveva tenuto testa al lupo nel bosco – là dove le altre due sorelle avevano fallito.

C’era tre sorelle, a lavorare in un paese. Gli venne la notizia che la loro mamma, che abitava a Borgoforte, stava mal da morte. Allora la sorella maggiore si preparò due sporte con dentro quattro fiaschi e quattro torte e partì per Borgoforte. Per strada trovò il lupo che le disse: – Dove corri così forte?

– Da mia mamma a Borgoforte, che le è preso mal da morte.

– Cosa porti in quelle sporte?

– Quattro fiaschi e quattro torte.

– Dàlle a me se no, alle corte, ch’io ti mangi è la tua sorte.

La ragazza diede tutto al lupo, e tornò dalle sorelle a gambe levate. Allora la seconda riempì la sporta lei e partì per Borgoforte. Trovò il lupo.

– Dove corri così forte?

– Da mia mamma a Borgoforte, che le è preso mal da morte.

– Cosa porti in quelle sporte?

– Quattro fiaschi e quattro torte.

– Dàlle a me se no, alle corte, ch’io ti mangi è la tua sorte.

Anche la seconda sorella vuotò le sporte e tornò via di corsa. Allora la più piccola disse: – Adesso ci vado un po’ io, – preparò le sporte e partì. Trovò il lupo.

– Dove corri così forte?

– Da mia mamma a Borgoforte, che le è preso il mal da morte.

– Cosa porti in quelle sporte?

– Quattro fiaschi e quattro torte.

– Dàlle a me se no, alla corte, ch’io ti mangi è la tua sorte.

Allora la più piccola prese una torta e la buttò al lupo che stava a bocca aperta. Era una torta che lei aveva preparato prima apposta, con dentro tanti chiodi. Il lupo la prese al volo e la morse e si punse tutto il palato. Sputò la torta, fece un balzo indietro, e scappò dicendo alla bambina: – Me la pagherai!

Di corsa, per certe scorciatoie che sapeva solo lui, il lupo arrivò a Borgoforte prima della bambina.

Entrò in casa della madre ammalata, la mangiò in un boccone, e si mise a letto al suo posto. Arrivò la bambina, vide la mamma che faceva appena capolino dalle lenzuola, e le disse: – Come sei diventata nera, mamma!

– Sono stati tutti i mali che ho avuto, bambina, – disse il lupo.

– Come t’è venuta la testa grossa, mamma!

– Sono stati tutti i pensieri che ho avuto, bambina.

– Lascia che t’abbracci, mamma, – disse la bambina e il lupo, ahm!, se la mangiò in un boccone. Inghiottita che ebbe la bambina, il lupo scappò fuori. Ma appena sulla via i paesani, a vedere un lupo uscire da una casa, gli si misero dietro con forche e badili, gli chiusero tutte le strade e l’ammazzarono.

Gli tagliarono subito la pancia e ne uscirono madre e figlia ancora vive. La mamma guarì e la bambina tornò dalle sorelle a dire: – Avete visto che io ce l’ho fatta.[7]

In Zio Lupo, fiaba romagnola, troviamo un altro ammonimento verso le bimbe disubbidienti e golose (che antepongono il principio di piacere, come direbbe Bettelheim). La bambina protagonista fa la fine di Cappuccetto rosso nella versione di Perrault: viene divorata senza che nessun cacciatore la salvi.

C’era una bambina golosa. Un giorno di Carnevale la maestra dice alle bambine: – Se siete buone a finire la maglia, vi do le frittelle.

Ma quella bambina non sapeva fare la maglia, e chiese d’andare al camerino. Si chiuse là dentro e ci s’addormentò. Quando tornò in scuola, le altre bambine s’erano mangiate tutte le frittelle. E lei andò a piangere da sua madre e a raccontarle tutta la storia.

– Sta’ buona, poverina. Ti farò io le frittelle, – disse la mamma. Ma la mamma era tanto povera che non aveva nemmeno la padella. – Va’ da Zio Lupo, a chiedergli se ci presta la padella.

La bambina andò alla casa di Zio Lupo. Bussò: “Bum, bum”.

– Chi è?

– Sono io!

– Tanti anni, tanti mesi che nessuno batte più a questa porta! Cosa vuoi?

– Mi manda la mamma, a chiedervi se ci prestate la padella per fare le frittelle.

– Aspetta che mi metto la camicia.

“Bum, bum”.

– Aspetta che mi metto i mutandoni.

“Bum, bum”.

– Aspetta che mi metto i pantaloni.

“Bum, bum”.

– Aspetta che mi metto la gabbana.

Finalmente Zio Lupo aperse e le diede la padella. – Io ve la presto, ma di’ alla mamma, che quando me la restituisce me la mandi piena di frittelle, con una pagnotta di pane e un fiasco di vino.

– Sì sì, vi porterò tutto.

Quando fu a casa, la mamma le fece tante buone frittelle, e ne lasciò una padellata per Zio Lupo.

Prima di sera disse alla bambina: – Porta le frittelle a Zio Lupo, e questa pagnotta di pane e questo fiasco di vino.

La bambina, golosa com’era, per strada cominciò ad annusare le frittelle. “Oh, che buon profumino! E se ne assaggiassi una?” E una due tre se le mangiò tutte, e per accompagnarle si mangiò tutto il pane e per mandarle giù si bevve anche il vino.

Allora, per riempire la padella, raccolse per la strada delle polpette di somaro. E il fiasco, lo riempì d’acqua sporca. E per pane fece una pagnotta con la calcina d’un muratore che lavorava per la strada. E quando arrivò da Zio Lupo gli diede tutta questa brutta roba.

Zio Lupo assaggia una frittella. – Puecc! Ma questa è polpetta di somaro! – Va subito per bere il vino per togliersi il sapore di bocca. – Puecc! Ma questa è acqua sporca! – Addenta un pezzo di pane e: – Puecc! Ma questa è calcina! – Guardò la bambina con occhi di fuoco e disse: – Stanotte ti vengo a mangiare!

La bambina corse a casa da sua mamma: – Stanotte viene Zio Lupo e mi mangia!

La mamma cominciò a chiudere porte, a chiudere finestre, a chiudere tutti i buchi della casa perché Zio Lupo non potesse entrare, ma si dimenticò di chiudere il camino.

Quando fu notte e la bambina era già a letto, si sentì la voce di Zio Lupo da fuori: – Adesso ti mangio! Sono vicino a casa! – Poi si sentì un passo sulle tegole: – Adesso ti mangio! Sono sul tetto!

Poi si sentì un gran rumore giù per il camino: – Adesso ti mangio! Sono nel camino!

– Mamma mamma, c’è il lupo!

– Nasconditi sotto le coperte!

– Adesso ti mangio! Sono nel focolare!

La bambina si rincantucciò nel letto, tremando come una foglia.

– Adesso ti mangio! Sono nella stanza!

La bambina trattenne il respiro.

– Adesso ti mangio! Sono ai piedi del letto! Ahm, che ti mangio! – E se la mangiò.

E così Zio Lupo mangia sempre le bambine golose. [8]

Infine in La finta nonna, fiaba abruzzese, si ripropone la scena del lupo nel letto della nonna, con la differenza che in questo caso non si tratta di un lupo ma di un’Orca, e alla bambina protagonista va meglio che a Cappuccetto rosso, in quanto si avvede in tempo di non trovarsi a letto con la nonna ma con un mostro e riesce a scappare, aiutata da altri personaggi secondari (il fiume e la porta) che ne favoriscono la fuga in quanto beneficiati dalla generosità della piccola, che viene così premiata.

Una mamma doveva setacciare la farina. Mandò la sua bambina dalla nonna, perché le prestasse il setaccio. La bambina preparò il panierino con la merenda: ciambelle e pan coll’olio; e si mise in strada.

Arrivò al fiume Giordano.

– Fiume Giordano, mi fai passare?

– Sì, se mi dài le tue ciambelle.

Il fiume Giordano era ghiotto di ciambelle che si divertiva a far girare nei suoi mulinelli.

La bambina buttò le ciambelle nel fiume, e il fiume abbassò le acque e la fece passare.

La bambina arrivò alla Porta Rastrello.

– Porta Rastrello, mi fai passare?

– Sì, se mi dài il tuo pan coll’olio.

La Porta Rastrello era ghiotta di pan coll’olio perché aveva i cardini arrugginiti e il pan coll’olio glieli ungeva.

La bambina diede il pan coll’olio alla porta e la porta si aperse e la lasciò passare.

Arrivò alla casa della nonna, ma l’uscio era chiuso.

– Nonna, nonna, vienimi ad aprire.

– Sono a letto malata. Entra dalla finestra.

– Non ci arrivo.

– Entra dalla gattaiola.

– Non ci passo.

– Allora aspetta -. Calò una fune e la tirò su dalla finestra. La stanza era buia. A letto c’era l’Orca, non la nonna, perché la nonna se l’era mangiata l’Orca, tutta intera dalla testa ai piedi, tranne i denti che li aveva messi a cuocere in un pentolino, e le orecchie che le aveva messe a friggere in una padella.

– Nonna, la mamma vuole il setaccio.

– Ora è tardi. Te lo darò domani. Vieni a letto.

– Nonna ho fame, prima voglio cena.

– Mangia i fagioletti che cuociono nel pentolino.

Nel pentolino c’erano i denti. La bambina rimestò col cucchiaio e disse: – Nonna, sono troppo duri.

– Allora mangia le frittelle che sono nella padella.

Nella padella c’erano le orecchie. La bambina le toccò con la forchetta e disse: – Nonna, non sono croccanti.

– Allora vieni a letto. Mangerai domani.

La bambina entrò in letto, vicino alla nonna. Le toccò una mano e disse: – Perché hai le mani così pelose, nonna?

– Per i troppi anelli che portavo alle dita.

Le toccò il petto. – Perché hai il petto così peloso, nonna?

– Per le troppe collane che portavo al collo.

Le toccò i fianchi. – Perché hai i fianchi così pelosi, nonna?

– Perché portavo il busto troppo stretto.

Le toccò la coda e pensò che, pelosa o non pelosa, la nonna di coda non ne aveva mai avuta. Quella doveva essere l’Orca, non la nonna. Allora disse: – Nonna, non posso addormentarmi se prima non vado a fare un bisognino.

La nonna disse: – Va’ a farlo nella stalla, ti calo io per la botola e poi ti tiro su.

La legò con la fune, e la calò nella stalla. La bambina appena fu giù si slegò, e alla fune legò una capra.

– Hai finito? – disse la nonna.

– Aspetta un momentino -. Finì di legare la capra. – Ecco, ho finito, tirami su.

L’Orca tira, tira, e la bambina si mette a gridare: – Orca pelosa! Orca pelosa! – Apre la stalla e scappa via. L’Orca tira e viene su la capra. Salta dal letto e corre dietro alla bambina.

Alla Porta Rastrello, l’Orca gridò da lontano: – Porta Rastrello, non farla passare!

Ma la Porta Rastrello disse: – Sì, che la faccio passare, perché m’ha dato il pan coll’olio.

Al fiume Giordano l’Orca gridò: – Fiume Giordano, non farla passare!

Ma il fiume Giordano disse: – Sì che la faccio passare, perché m’ha dato le ciambelle.

Quando l’Orca volle passare, il fiume Giordano non abbassò le sue acque e l’Orca fu trascinata via. Sulla riva la bambina le faceva gli sberleffi. [9]

Firenze, 3 febbraio 2021

Bibliografia

Bettelheim B., Il mondo incantato, Milano, Euroclub, 1983.

Calvino I., Fiabe italiane, Milano, Mondadori, 2005.


[1] «Per il bambino il valore di una fiaba è distrutto se qualcuno gliene chiarisce dettagliatamente il significato. Perrault fa qualcosa di peggio: ne limita il contenuto» Bettelheim B., Il mondo incantato, Milano, Euroclub, 1983, p. 166.

[2] Nella seconda versione, dopo il salvataggio del cacciatore, la protagonista viene adescata da un altro lupo, ma stavolta si comporta più saggiamente e riesce ad affrontarlo alleandosi con la nonna.

[3] Ibidem, p. 170.

[4] Ibidem, p. 172.

[5] Ibidem, p. 180.

[6] Traduzione di Sarpy, sul web.

[7] Calvino I., Fiabe italiane, Milano, Mondadori, 2005, pp. 111-112.

[8] Ibidem, pp. 223-225.

[9] Ibidem, pp. 603-605.