Anarchia marziana

Di Massimo Acciai Baggiani

La fantascienza parla spesso di politica, situando nel futuro prossimo o remoto antichi sistemi di governo (penso all’Impero Galattico di Asimov) o nuove utopie e/o distopie (si vedano quelle di Aldous Huxley, di Ray Bradbury e di George Orwell, per fare esempi celebri). Nelle mie letture però raramente avevo trovato riferimenti espliciti all’anarchia in toni positivi. A fare l’apologia di questa visione del mondo – con cui mi trovo pienamente d’accordo – è un personaggio di un racconto di Stanley G. Weinbaum (1900-1935), autore statunitense importante quanto sfortunato: il racconto in questione si intitola Marte: la seconda odissea e fa parte di una serie di racconti contenuti in un’antologia apparsa in Italia col titolo di Un’odissea marziana.

Siamo in un improbabile (per noi uomini del Duemila) XXII secolo, quando l’umanità sta colonizzando i principali pianeti e satelliti del Sistema Solare (Marte, Venere, Urano, Io…). Dirò subito che, guarda caso, tutti i suddetti corpi celesti hanno un’atmosfera respirabile e una pressione simile a quella terrestre. Anche le temperature, almeno in certe zone, sono compatibili con la vita umana, ed esiste anche una vita autoctona che in qualche caso risulta poi intelligente, anche se aliena e con un intelletto diverso da quello umano. C’è da divertirsi, se non si bada troppo alla verosimiglianza scientifica (ma consideriamo che negli anni Trenta la stessa scienza ufficiale ne sapeva ancora ben poco dei pianeti a noi vicini…). Un bel libro, insomma, una pietra miliare per la storia del genere fantascientifico, scorrevole e pieno di invenzioni fantastiche.

Veniamo al dialogo a cui accennavo, quello in cui si parla di anarchia[1]. Sulla Terra esistono, in questo futuro immaginato da Weinbaum, tre sistemi politici: autarchia, democrazia e comunismo. L’anarchia sulla Terra non è mai stata tentata (o comunque, aggiungo io, non ha mai funzionato) perché – secondo Jarvis (l’esploratore protagonista del racconto) – i marziani (dalla strana forma di struzzi estremamente intelligenti) a differenza dei terrestri sono abbastanza evoluti per permettersi di non avere bisogno di un governo:

«Bè, quando si arriva al sodo […] l’anarchia è la forma di governo ideale, se funziona. Emerson diceva che il governo migliore è quello che governa meno, e lo sosteneva anche George Phillips; e anche Washington, mi pare. E non può esistere una forma di governo che governi meno dell’anarchia, che è l’assenza di un governo.»

Il comandante della spedizione ribatte perplesso, perfino indignato all’idea di un popolo intelligente che pratichi l’anarchia:

«Ma è contro natura! […] Perfino le tribù selvagge hanno un capo. Persino un branco di lupi ce l’ha.»

Pronta la risposta di Jarvis:

«In una razza perfetta non ce ne sarebbe affatto bisogno. Il governo è l’ammissione del fatto che c’è bisogno di leggi per tenere a freno gli individui antisociali. Se non ci fossero antisociali, non ci sarebbe bisogno delle leggi o della polizia.»

L’obiezione del comandante è lapidaria ma significativa (e fa andare il sangue alla testa a un anarchico pacifista come me), tuttavia anche questa trova una risposta più che valida nelle parole del saggio Jarvis (bravo!):

«Ma il governo sarebbe necessario! E i lavori pubblici, le guerre, le tasse?»

«Niente guerre su Marte […]. La popolazione è poco numerosa e molto dispersa. Inoltre, per far funzionare il sistema dei canali occorre la collaborazione di ogni comunità. Niente tasse, perché, evidentemente, tutti gli individui cooperano per costruire le opere pubbliche. Niente concorrenza che causi difficoltà, perché chiunque può prendersi quel che gli occorre. Come ho detto, in una razza perfetta, il governo è assolutamente inutile.»

Il comandante chiude il discorso con parole sprezzanti:

«Ma l’anarchia […] è logico che sia apparsa su un mondo piccolo e mezzo morto come Marte!»

E siamo nel 1935 (l’anno di morte di Weinbaum), in pieno nazismo. Solo tre anni prima era uscito Il mondo nuovo di Aldous Huxley, una distopia (così vicina all’utopia) in cui c’è sì un governo (mondiale per giunta) ma non ci sono né guerre né tasse. Due società simili e diverse, che forse non si realizzeranno mai sul nostro pianeta, in particolare il modello marziano. Pure sostengo, da anni ormai, che l’Uomo dovrà evolversi anch’esso verso un mondo più giusto, privo di guerre, di nazionalismi e di autoritarismo, se vorrà evitare l’estinzione. Ce la farà in tempo? Io rimango ottimista nonostante le tragedie che ci circondano, soprattutto in questo momento storico.

Firenze, 27 novembre 2023

Bibliografia Weinbaum S. G., Un’odissea marziana, Bologna, Libra, 1982.


[1] Cfr. Weinbaum S. G., Un’odissea marziana, Bologna, Libra, 1982, pp. 70-72.

I figli della galassia: un po’ di fantascienza italiana vintage

Massimo Acciai Baggiani

Un giorno, mentre stavo dando un’occhiata a uno scaffale del libero scambio, la mia attenzione fu catturata dalla copertina a colori vivaci, un po’ sciupata dal tempo, di una vecchia rivista di fantascienza, in particolare dal nome che compare sulla suddetta copertina: Azimov.

Il primo pensiero è stato “Strano, non conoscevo questo romanzo”, il secondo “Ma Asimov non si scrive con la S?”. Non si trattava evidentemente del celebre scrittore americano, anche se il titolo del romanzo contenuto nella rivista sembrava un chiaro richiamo all’opera asimoviana e alla space opera degli anni Cinquanta: I figli della galassia. Senza alcun dubbio presi la rivista e me la portai a casa, incuriosito. Poco più tardi sentii l’amico e collega scrittore di fantascienza Pierfrancesco Prosperi, il quale mi svelò l’arcano. Dietro l’astuto pseudonimo di Jack (NON Isaac) Azimov si celavano due autori italiani: i compianti Antonio Bellomi (1945-2021) e Luigi Naviglio (1936-2001).

Pierfrancesco mi svelò anche che (guarda la coincidenza!) il romanzo, diviso in due parti, avrebbe dovuto contenerne anche una terza, scritta da lui stesso. Il romanzo completo fu poi ripubblicato dalle Edizioni Della Vigna nel 2016, senza pseudonimo e con tutti e tre i nomi degli autori, col titolo di Crociera tra le stelle. Per essere più precisi si può parlare di due romanzi brevi accomunati dalla stessa ambientazione e dagli stessi personaggi, scritti a partire dal 1964 e usciti poi sulla rivista “Altair” (che sarebbe poi diventata “Spazio 2000”, quella trovata da me allo scaffale del libero scambio) nel 1976. Prima della fine della telefonata, che ci portò ad aggiornarci sui nostri rispettivi lavori letterari in corso, Pierfrancesco mi promise di spedirmi il romanzo completo.

Svelato questo piccolo mistero, veniamo dunque a questa graziosa opera della fantascienza nostrana la quale, a mio parere, nulla ha da invidiare a quella d’oltreoceano.

La vicenda è un classico e si inserisce nel filone dei viaggi di esplorazione spaziale che trova nella serie di Star Trek un esempio celeberrimo. Qui siamo nell’anno 10.102 (presumibilmente d.C.): l’astronave interplanetaria Star-Arrow è incaricata di riprendere contatto con le antiche colonie terrestri su altri sistemi planetari, ripercorrendo il tragitto compiuto secoli prima da un’analoga astronave terrestre, il cui compito era di individuare pianeti adatti alla colonizzazione umana.

La Star-Arrow è guidata da tre uomini – Cannon, Morton e McGregor – amici inseparabili, e porta con sé un esercito di scienziati, tecnici e militari. In questo futuro remoto è ancora ben presente un tenace attaccamento alla Terra, la patria umana, ed esistono ancora le religioni (a bordo ci sono un prete cattolico e uno protestante) oltre a varia tecnologia analogica (gli autori non potevano ovviamente prevedere negli anni Settanta la rivoluzione digitale, anche se qualcosa Asimov – quello “vero” – aveva accennato nelle sue opere). Sullo scafo dell’astronave spicca la bandiera terrestre perché

«(…) gli uomini, senza un simbolo e cioè una bandiera, una casa, una patria, non avrebbero avuto ragione di esistere.»[1]

Personalmente questa affermazione non mi trova d’accordo, mi riconosco piuttosto nel testo della canzone Passaporto per le stelle, scritto dal compianto Valerio Negrini e cantato dai Pooh, che parla di due novelli Adamo ed Eva che vengono spediti dalla Terra ormai sull’orlo dell’autodistruzione su un pianeta vergine dove salvare il seme umano, e dove una «fortissima presenza» li esorta:

Fate nuovi amori, fate nuove geografie,
senza generali, cattedrali e nostalgie.
Senza più bandiere mai.[2]

Visto che è stato proprio il nazionalismo, il militarismo e il fanatismo religioso a portare alla rovina il mondo. Per il resto condivido la fiducia nel progresso dell’equipaggio della nave, i suoi scopi umanitari e la visione grandiosa di un Cosmo colonizzato dall’Uomo guidato sì dalla scienza ma soprattutto dal cuore.

Il primo pianeta presentatoci dal romanzo si trova nel sistema di Helfar, su cui trecento anni prima era scesa l’astronave Fede carica di coloni in fuga da un pianeta dominato da un sistema totalitario e liberticida. Gli uomini della Star-Arrow rilevano subito una pericolosa anomalia: la luce è accecante! Il mistero è presto svelato: circa trecento anni prima una nube cosmica è entrata nel sistema e ha fatto da specchio al suo sole, aumentandone la luminosità di diecimila volte. La vista dell’equipaggio è salva grazie ai sistemi di schermatura entrati in funzione automaticamente; non così gli occhi degli antichi coloni, giunti poco prima della nube maledetta, i quali però sopravvivono alla cecità e si riproducono, generando una discendenza anch’essa cieca (o meglio, con gli occhi coperti da una membrana protettiva) ma che ha in compenso sviluppato poteri mentali e una spiccata intelligenza, oltre a un modo di vivere pacifico e armonico.

Un’operazione può rendere la vista ai due protagonisti “alieni”, un uomo e una donna, rimuovendo la membrana oculare, e la tecnologia può rimuovere anche la nube facendo tornare la luminosità solare alla normalità. Gli uomini della Star-Arrow possono ripartire verso nuove avventure dopo aver risolto i misteri del pianeta e aver riunito i suoi intelligenti abitanti al consorzio umano.

Il secondo pianeta su cui atterra la Star-Arrow, nel sistema Fernen, già visitato dalla spedizione Harius, è un vero rompicapo: settecento anni prima “non esisteva”, o meglio la spedizione aveva rivelato solo sette pianeti. Invece ce ne sono otto. Da dove viene l’ottavo pianeta? Una prima esplorazione rivela degli umanoidi ridotti a uno stato di pietosa apatia, si rinvengono inoltre varie città polverizzate, risalenti a 600, 1600 e 2700 anni prima. Un misterioso cataclisma ricorrente ogni millennio cancella la civiltà sul pianeta, costringendo gli abitanti a ripartire ogni volta da zero: perciò sono scivolati nel fatalismo e nell’apatia, da cui si risvegliano solo con l’arrivo dell’astronave terrestre. Anche questo mistero viene svelato: periodicamente il pianeta “oscilla” tra due dimensioni, due diversi piani di vibrazione degli atomi, ed ogni passaggio interdimensionale distrugge la civiltà. Una maledizione da cui vengono liberati tramite una Centrale Vibratoria. Risolta anche questa magagna la Star-Arrow riparte per il successivo mondo da visitare.

Qui si interrompe il romanzo in due parti. Per leggere quello completo ho dovuto aspettare l’invio di Pierfrancesco e scoprire così anche la sua terza parte, non meno interessante delle prime due. Si tratta di un testo revisionato rispetto a quello degli anni ‘70 (per esempio l’astronave viene ribattezzata Yggdrasill, come l’albero cosmico della mitologia norrena): l’ultima parte si svolge sul pianeta Mescarol, su cui la precedente missione aveva individuato una razza umanoide estremamente bellicosa. Secoli dopo l’equipaggio della Yggdrasill atterra in un’area vicina a quella precedentemente osservata e vi trova un clima freddo dove una popolazione del tutto apatica conduce una vita vegetativa tirando avanti con lo stretto necessario. Dove sono finite le armi e le guerre? Per svelare il mistero viene rapito, senza tanti complimenti, uno degli abitanti e studiato a bordo. L’astronave si sposta intanto nell’emisfero opposto e qui vi trova in effetti i guerrafondai descritti secoli addietro; il clima caldo risveglia i bollenti spiriti anche dell’indigeno-cavia, il quale perde il senno e fugge. Il mistero è presto chiarito: come l’ottavo pianeta del sistema Ferner (descritto da Naviglio) anche questo segue un ciclo, stavolta di dodici anni, corrispondete alle stagioni. Durante la stagione calda prende il sopravvento lo spirito guerriero, sopito durante quella fredda.

La soluzione proposta dal comandante della Yggdrasill è crudele ma pare l’unica: aspettare che i bellicosi indigeni scoprano la bomba atomica e inizino una guerra nucleare che li spaventi così tanto da rinunciare a fare ulteriori guerre, così come era successo sulla Terra dopo la famigerata Terza Guerra Mondiale, secoli prima. Solo a quel punto i terrestri avrebbero potuto aiutare gli indigeni a progredire verso un mondo più saggio e pacifico.

Unica notazione personale che posso fare a questa ultima parte: gli scienziati della Yggdrasill parlano di «intelligenza vivace» in riferimento alla parte bellicosa del cervello indigeno, mentre io parlerei piuttosto di stupidità guerrafondaia, che può avere in effetti anche una sorta di finta “intelligenza”, votata al male, ma che non ha nulla a che vedere con la vera intelligenza, sempre pacifica e votata alla costruzione e al vivere civile piuttosto che al massacro (può sembrare banale, ma nel momento storico in cui scrivo è quanto mai attuale).

Crociera tra le stelle si conclude con un interessante saggio di Franco Piccinini sui viaggi spaziali antecedenti al romanzo del nostro Jack Azimov.

Firenze, 17 settembre 2023

Bibliografia

Azimov J., I figli della galassia, Milano, Il Picchio, 1980.

AAVV., Crociera tra le stelle, Edizioni Della Vigna, 2016.


[1] Cfr. Azimov J., I figli della galassia, Milano, Il Picchio, 1980, p. 25.

[2] Nell’album Tropico del Nord del 1983.

L’esperanto a Didacta 2023

Di Massimo Acciai Baggiani

L’esperanto è sempre stato all’avanguardia in campo didattico, non poteva quindi certo mancare a un evento come Didacta, svoltosi a Firenze, alla Fortezza da Basso, dall’8 al 10 marzo 2023, dedicato proprio all’innovazione e alla ricerca nel mondo dell’insegnamento. Già noi esperantisti avevamo preso parte all’edizione dell’anno scorso, presentando una conferenza: a questa sesta edizione siamo stati presenti con una notevole operazione di volantinaggio, durante quei tre giorni, con circa 10.000 volantini distribuiti alla fiera e anche in alcune scuole fiorentine, riguardanti la conferenza di Laura Brazzabeni del 10 marzo e il progetto delle “30 ore d’oro” (riguardante l’insegnamento dell’esperanto a docenti toscani e non). Si sono fermati a chiedere informazioni vari docenti e dirigenti scolastici provenienti da diverse città quali Torino, Bergamo, Milano, Trento, Venezia, Ferrara, Bologna, Genova, Massa, Prato, Firenze, Pescara, Bari, Foggia, Napoli, Rieti, Roma, Perugia, Catania, Siracusa, Palermo, Lamezia Terme, Napoli, ecc.

Un ringraziamento va ai samideani toscani Brunetto Casini, Nicola Morandi, Enrico Borrello, Marco Cecchi, Antonio Ghu, Raffaello Dazzini che si sono impegnati per il volantinaggio, ai membri dell’associazione esperantista fiorentina Carla Cenni, Brunella Moracci, Enrico Brustolin, Lucia Sanna che hanno promosso l’iniziativa, ed un grazie anche a Riccardo Pinori ed al presidente FEI Luigi Fraccaroli che hanno reso possibile l’iniziativa grazie al costante supporto amministrativo nei confronti delle autorità pubbliche fiorentine.

Molto interessante la conferenza tenuta a chiusa della fiera da Laura Brazzabeni, presso la biblioteca delle Oblate. Laura ha presentato brevemente la lingua e ha parlato delle numerose occasioni di apprenderla in presenza oppure online e le relative certificazioni linguistiche. Il mio compito è stato quello di occuparmi delle riprese (è possibile trovare a questo link l’intera registrazione https://youtu.be/YL4PjNpuW50.

Speriamo per la prossima edizione di Didacta in una sponsorizzazione pubblica o privata per avere uno stand, visti gli alti costi.

Firenze, 16 marzo 2023

ecco anche il link di un breve resoconto video

I Pooh e la narrativa

Di Massimo Acciai Baggiani

A quasi due anni dalla scomparsa dell’ex Pooh Stefano D’Orazio, causa Covid, ho affrontato, con un certo scetticismo, il suo romanzo postumo Tsunami, insieme al romanzo dell’amico, e pure lui ex Pooh, Roby Facchinetti, Katy per sempre. Il mio scetticismo era dovuto al fatto che spesso chi eccelle in una branca artistica raramente raggiunge certe vette in un’altra. Dopo la lettura di questi due romanzi devo dire che siamo in presenza di due eccezioni: si tratta infatti di libri molto belli, dignitosissimi, all’altezza dei lavori musicali dei due. Facchinetti e D’Orazio sono artisti eclettici, a tutto tondo.

Il primo in ordine cronologico è il romanzo di Facchinetti. Questi ripercorre la vita di Rita, detta “Katy” per il suo amore verso i Pooh e per la sua tentata fuga da casa, quando aveva la stessa età dell’omonima protagonista della canzone. Ogni capitolo prende non a caso il titolo da una canzone della lunghissima carriera dei Pooh; una canzone che sembra scritta apposta per la protagonista, che si trova così a vivere in prima persona le storie narrate da Valerio Negrini e Stefano D’Orazio. Rita-Katy conoscerà di persona i suoi eroi e vivrà intensamente varie storie d’amore e d’amicizia che la porteranno a maturare. Si tratta in questo senso di un romanzo di formazione, come pure il romanzo di Stefano (come vedremo). Compaiono nel libro le figure stesse di Facchinetti e di Negrini, ai cui testi-poesie cui ho dedicato un saggio uscito quest’anno per L’Erudita editore (marchio di Giulio Perrone): La poesia dei Pooh.

Nel mio libro ovviamente non ho parlato solo di Valerio, ma anche di Stefano, il secondo poeta dei Pooh (secondo in quanto a quantità, non certo a qualità). Il romanzo di D’Orazio non cita i Pooh, al contrario di quello di Facchinetti. Si tratta in poche parole di una rivisitazione in chiave moderna di Robinson Crusoe: un pubblicitario milanese, Walter Sartori, parte per un viaggio in Polinesia e si ritrova vittima dello tsunami del titolo proprio mentre percorre in barca in solitaria le isole del sud. Naufrago su un’isola deserta insieme a un gatto “clandestino”, Capitano[1], non si perde d’animo e riesce a organizzarsi la vita prima di cogliere al volo la possibilità di fuga grazie a un evento che pone a rischio la sua stessa vita: lo sbarco di alcuni trafficanti d’armi senza scrupoli. Il lieto fine e d’obbligo.

Lo stile di questi due romanzi è molto vicino, come sono vicine le sensibilità dei due autori: semplice, scorrevole e accattivante come le canzoni dei Pooh.

Firenze, 23 ottobre 2022

Bibliografia

Acciai Baggiani M., La poesia dei Pooh, Roma, L’Erudita, 2022.

D’Orazio S., Tsunami, Torino, La corte, 2021.

Facchinetti R., Katy per sempre, Milano, Sperling & Kupfer, 2020.


[1] Da gattofilo qual sono ho trovato commovente la scena in cui Walter salva la vita al suo amico felino, quando questi ha ingerito delle bacche velenose.

L’esperanto e le 30 ore d’oro

E’ in rete la prima lezione del corso per l’insegnamento della lingua esperanto rivolto ai docenti toscani delle scuole secondarie di secondo grado, che porta il suggestivo nome di “30 ore d’oro”. Si tratta di un’iniziativa promossa dall’Istituto Italiano di Esperanto e dall’ILEI (l’associazione internazionale degli insegnanti di esperanto) in collaborazione con l’Ufficio Scolastico Regionale.

Un’opportunità, appunto, d’oro per gli insegnanti, i quali potranno apprendere, in dieci lezioni da due ore ciascuna, questa straordinaria lingua, nata 134 anni fa e ancora attuale: il corso è finalizzato al raggiungimento rapido della padronanza di base della lingua e della sua didattica ai docenti, che potranno così tenere a loro volta un corso di trenta ore ai propri studenti, nelle scuole secondarie superiori della nostra regione, per far loro raggiungere una conoscenza di livello A2 e l’input per continuare nello studio anche al di là delle trenta ore. È bene ricordare che, vista la semplicità e la razionalità con cui è stato creato l’esperanto, un’ora dedicata all’apprendimento corrisponde a molte ore di studio di un’altra lingua.

Ma non è solo per la soddisfazione di raggiungere una padronanza dell’esperanto in breve tempo che è utile imparare la lingua internazionale, con tutti i vantaggi di parlare una lingua usata da tanti amici in tutto il mondo: vi sono ragioni che riguardano anche lo studio delle altre lingue, a cui l’esperanto non mira certo a sostituirsi ma anzi a tutelarle nel loro uso a difesa delle peculiarità locali di ogni popolo. Studiare l’esperanto aiuta ad apprendere anche le altre lingue: lo dimostrano studi specifici, raccolti tra gli altri da Alessandra Madella, vicepresidente dell’ILEI.

Il corso proposto dal Progetto è gratuito e prevede la possibilità di ottenere l’attestato di primo grado, previo superamento di un esame facoltativo presso l’Istituto Italiano di Esperanto (IIE).

Il Progetto è stato creato in preparazione del Congresso Internazionale degli Insegnanti di Esperanto che si terrà a Marina di Massa alla fine di luglio del 2023 ed è stato presentato recentemente a Parigi da Alessandra Madella per il premio Hamdan dell’Unesco dedicato ad insegnanti e progetti didattici.

Maggiori notizie e molto altro materiale, tra cui il citato studio di Alessandra Madella, si può reperire, per un approfondimento, sul sito dedicato al progetto: www.30oredoro.it.

1 – Pagina facebook “RadioAttiva Network” (https://www.facebook.com/poweredbyRAN) , links dei posts relativi :

-Spot Breve: https://fb.watch/c8gfey_EX1/

-Spot Corto: https://fb.watch/c8gkoq0n7c/

-Spot Dialogato: https://fb.watch/c8gnUGPQA5/

Sulla Pagina è pubblicata inoltre come post anche la Puntata Speciale dedicata al Progetto: https://fb.watch/c8gz2QrqiR/

Nella sezione video della Pagina stessa è presente inoltre anche una playlist dei suindicati video dedicati al Progetto, raggiungibile anche su facebook watch tramite il seguente link: https://www.facebook.com/watch/110777583720404/517324169936517

2 – Pagina facebook “EsperRadio – La Frateca Radio” (https://www.facebook.com/esperradio ) , links dei posts relativi :

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Considerazioni su “Stella rossa”

Di Massimo Acciai Baggiani

Di recente mi è stato consigliato, dal compagno Franco del Circolo Operaio[1], un interessante romanzo di fantascienza russa pubblicato nel 1908 da Aleksandr Bogdanov (1873-1928). Benché abbia più di un secolo, Stella Rossa (Krasnaja Zvezda), è ancora godibilissimo e fonte di riflessioni sempre attuali.

La trama è piuttosto semplice: il protagonista, Leonid (Lenni per gli amici, chiaro anagramma di Lenin), è un socialista moderato impegnato nel partito; un giorno incontra un compagno che si rivelerà un marziano sotto mentite spoglie (i marziani sono fisicamente molto simili ai terrestri, hanno soltanto gli occhi più grandi a causa della minore irradiazione solare sul loro pianeta). Questi, Menni, è un grande scienziato in missione: gli propone di accompagnarlo nel viaggio di ritorno su Marte per iniziare a instaurare relazioni tra i due pianeti – la Terra e la “stella rossa” (termine improprio visto che Marte non è una stella ma un pianeta, anche se tale viene vista ad occhio nudo da noi).

Lenni accetta all’istante, senza alcun dubbio (prima stranezza) e in breve si ritrova a bordo di un’astronave sferica che sfrutta la “materia minus”, una sorta di materia antigravitazionale che – per intenderci – “cade” verso l’alto anziché andare in basso[2]. Il lungo viaggio non è privo di pericoli, tanto che uno dei personaggi minori ci rimette le penne. Arrivati a destinazione il terrestre viene istruito su usi e costumi locali, e qui entriamo nella parte più interessante dell’opera, che si configura come un romanzo filosofico dal sapore settecentesco. Utopia o distopia? Siamo in una zona ambigua, non netta come nelle distopie novecentesche o nelle utopie precedenti. Su Marte, immaginato da Bogdanov, si è realizzato il “perfetto” socialismo: il pianeta rosso viene percepito (già ne La guerra dei mondi di H.G.Wells) come molto più antico del nostro, con un’evoluzione che ricalca in più punti quella terrestre. Anche la razza intelligente che lo popola ha avuto una storia simile, ma è andata oltre al capitalismo e allo sfruttamento che pure ha attraversato in epoche antiche; la rivoluzione socialista si è realizzata già da un paio di secoli, ma senza la violenza della storia terrestre: in altre parole la Terra è il pianeta giovane e turbolento mentre Marte il fratello maggiore più pacato:

«i due popoli sono come due fratelli. Il maggiore ha un carattere tranquillo ed equilibrato, invece il minore è violento e impetuoso. Il più piccolo spreca le proprie forze nel peggiore dei modi e commette più errori; la sua infanzia è stata dolorosa e travagliata, e ora con il passaggio alla giovinezza soffre di frequenti crisi angoscianti.»[3]

Vedremo poi che il “fratello maggiore” non sarà così saggio e perfetto…

Bogdanov entra in merito a diversi aspetti di questa strana società extraterrestre, dalla sua economia alla produzione industriale, dall’educazione alla lingua, eccetera. Mi viene da soffermarmi su questi ultimi due aspetti. La scuola marziana è molto più evoluta della nostra:

«Il fatto è che da noi lo studio non comincia mai dai libri […] Il bambino ricava le sue informazioni dalla viva osservazione della natura e dalla comunicazione attiva con altre persone. Prima che affronti un libro del genere ha già compiuto una considerevole quantità di viaggi, ha visto molteplici immagini della natura, sa riconoscere diversi tipi di piante e specie di animali, ha familiarità con l’uso del telescopio, del microscopio, della fotografia, del fonografo, ha già udito storie sul passato e dei tempi andati dai bambini più grandi, dagli insegnanti e dagli amici più vecchi.»[4]

La “Casa dei bambini” marziana ha diversi punti in comune tra l’altro con la mia visione educativa, antinozionistica e libertaria, espressa nel mio romanzo breve La nevicata (2015). Interessante anche l’accenno alla lingua marziana, in cui i nomi non variavano in base al sesso ma al tempo, concetto di difficile comprensione per il protagonista:

«nelle vostre lingue, nominando un oggetto, vi date un gran daffare a stabilire se questo sia maschile o femminile, il che, in sostanza, non è fondamentale, e per gli oggetti è addirittura strano. Più importante è la distinzione tra quelle cose che esistono, quelle che non esistono più oppure quelle che esisteranno […] quando parlate di una casa bruciata da un incendio, o di una casa in costruzione, adoperate la stessa forma cui fate riferimento per la casa in cui vivete. Non esiste forse una grande differenza in natura tra una persona vivente e un defunto […]? Voi necessitate di intere parole e frasi per definire una simile differenza, non è meglio esprimerla con l’aggiunta di una sola lettera nella parola stessa?»[5]

Più avanti si accenna anche a un’unica lingua universale (come non pensare all’esperanto?) di derivazione però naturale, vista la mancanza del nazionalismo presso i marziani: sono esistiti solo dialetti intercomprensibili, spazzati poi via dalla letteratura.[6] A proposito di quest’ultima, scopriamo una vena polemica di Bogdanov verso le nuove correnti poetiche che hanno distrutto il verso classico e la rima. Presso i marziani invece:

«la regolarità ritmica ci appare bella non per amore delle convenzioni, ma perché è in profonda sintonia con la regolarità ritmica della vita del pensiero. Le rime, che portano a compimento la variegata sequenza nell’accordo finale, non equivalgono forse al profondo legame vitale tra le persone, che rafforza la loro intima diversità per mezzo del piacere derivato dal rapporto non l’arte?»[7]

Se all’epoca in cui scriveva Bogdanov il cinema muoveva i primi passi, si era ancora nell’epoca del muto, su Marte c’è già il cinema 3D[8], e in questo l’autore è stato un precursore notevole. La scienza è più avanzata, tramite trasfusioni di sangue[9] la durata della vita è più che raddoppiata rispetto al passato, ma la natalità non si è adeguata. Ricordiamoci di questo dato, ci torneremo più avanti per dare un giudizio meno idilliaco della “perfetta” società marziana. Riporto qui sotto un brano che va contro tutte le mie idee riguardo al controllo demografico, ma che pure è importante per comprendere l’opera di Bogdanov e il suo pensiero:

«Ridurre la natalità? Questo sarebbe appunto il trionfo degli elementi della natura, la rinuncia alla crescita illimitata della popolazione, un’inevitabile battuta d’arresto sul gradino più basso della scala dello sviluppo. La vittoria si ottiene solo con l’offensiva. Quando rinunceremo alla crescita del nostro esercito, vorrà dire che saremo già assediati dagli elementi della natura su tutti i fronti. In quel momento inizierà a indebolirsi la fede nella nostra forza collettiva, nella nostra grande vita comune. Assieme alla fede andrà perduto anche il senso della vita di ognuno di noi, poiché in ciascuno una piccola cellula di un complesso organismo vive il Tutto e ognuno vive nel Tutto. No, ridurre la natalità sarebbe l’ultima decisione che prenderemmo; e quando ciò accadrà, a prescindere dal nostro volere, allora sarà l’inizio della fine.»[10]

Già qui iniziamo a dubitare della saggezza marziana e della sua superiorità rispetto alla razza umana. Veniamo infatti a sapere che le risorse del pianeta si vanno rapidamente esaurendo e che i marziani tengono d’occhio due pianeti vicini per risolvere i loro problemi dovuti alla “crescita illimitata della popolazione”: Venere – raffigurato come un mondo più giovane rispetto alla Terra, selvaggio e popolato di dinosauri, senza specie intelligenti[11] – e naturalmente il nostro mondo. Vedremo più avanti in che modo viene visto il nostro pianeta da questa intelligenza socialista aliena.

Apprendiamo intanto che su Marte l’eutanasia è legale e molto praticata, soprattutto dagli anziani che hanno perso il senso della vita[12]. Questo e altri aspetti della società aliena vengono immagazzinati nella mente sempre più allucinata di Lenni, il quale finisce con l’ammalarsi e soffrire appunto di allucinazioni. Viene curato amorevolmente da Netti, che si rivelerà una donna (le differenze di genere sono meno marcate tra i marziani) di cui si innamorerà e con cui avrà una relazione. Seguiranno altri flirt con donne marziane, a testimonianza che le due razze sono piuttosto vicine biologicamente, e che l’uomo è poligamo di natura.

Ci avviciniamo al cuore della trama: Lenni scopre infine i piani poco amichevoli dei marziani nei confronti dei terrestri. Dicevamo che due erano le scelte possibili per risolvere i problemi di penuria di risorse naturali: colonizzare il pianeta Venere, disabitato ma selvaggio, e la Terra. Sterni, uno degli scienziati capo marziani, nella sua fredda logica aliena giunge alla conclusione che l’unica soluzione possibile sarebbe quella dello sterminio totale della razza umana, la quale è giudicata inferiore e bellicosa, non disponibile a dividere pacificamente il pianeta con i nuovi arrivati (non avrebbero tutti i torti, i terrestri, vista la “crescita illimitata della popolazione” che porterebbe a uno sfruttamento selvaggio anche della Terra). Qui si inserisce una forte critica alla “politica coloniale” perseguita dai terrestri e al loro egoistico concetto di “patriottismo”[13] e «il desiderio egoistico di autoconservazione»[14] (sic) che li porterebbe a odiare i marziani invasori e a rendere loro la vita difficile nonostante la netta superiorità bellica di questi ultimi. Il socialismo terrestre viene considerato irrimediabilmente primitivo rispetto a quello marziano, e gli stessi socialisti russi sarebbero dei nemici alla fine. La frase conclusiva di Sterni per cui «una forma di vita superiore non può essere sacrificata a favore di una inferiore»[15] ci riporta a concetti che erano ancora di là da venire rispetto al 1908, ma che noi conosciamo purtroppo molto bene (anche se a qualcuno bisognerebbe ricordarli…). Ricordiamo anche che La guerra dei mondi di H.G. Wells era stato pubblicato una decina d’anni prima; i cattivissimi e mostruosi marziani welliani non appaiono affatto peggiori di quelli umanoidi di Bogdanov, almeno per quanto riguarda la politica interplanetaria.

La “soluzione finale” hitleriana ante litteram proposta da Sterni viene per fortuna bocciata in favore a quella più “umana” e razionale di Netti, la quale non nega che «il debole deve soccombere al forte»[16], ma che tutto sommato una convivenza pacifica potrebbe essere possibile in nome dell’unione e dell’amore, quindi meglio buttarsi su Venere. La visione di Netti è condivisa da Menni. Lenni, sconvolto dall’aver appreso la proposta di Sterni, lo uccide nel suo studio e viene quindi rimandato sulla Terra, in un manicomio dove dubita di aver realmente vissuto il suo periodo marziano, finché non compare Netti che, ancora innamorata, se porta via, non sappiamo dove.

Firenze, 1° aprile 2022

Bibliografia

Acciai Baggiani M., La nevicata e altri racconti, Sesto Fiorentino, PoetiKanten, 2015.

Bogdanov A., Stella rossa, Milano, Alcatraz, 2018.

Wells H.G., La guerra dei mondi, 1898.


[1] Dove faccio occasionalmente volontariato.

[2] Come nel mio racconto Inversione gravitazionale

[3] Cfr. Bogdanov A., Stella rossa, Milano, Alcatraz, 2018, p. 73.

[4] Ibidem, p. 66.

[5] Ibidem, pp. 59-60.

[6] Ibidem, p. 69.

[7] Ibidem, p. 108.

[8] Ibidem, p. 123.

[9] Ricordiamo che Bodganov morì a causa di una trasfusione di sangue da uno studente malato di tisi e malaria, qualcuno vi ha visto una sorta di suicidio che ci riporterebbe alle considerazioni sull’eutanasia che l’autore ha inserito nella sua opera.

[10] Ibidem, p. 111.

[11] Si veda anche la visione che ha di Venere gli scrittori americani Ray Bradbury e Isaac Asimov, per fare degli esempi.

[12] Ibidem, p. 117.

[13] Ibidem, p. 164.

[14] Ibidem, p. 166.

[15] Ibidem, p. 171.

[16] Ibidem, p. 174.

La figura del lupo in Cappuccetto Rosso e in altre fiabe italiane analoghe

Di Massimo Acciai Baggiani

Il lupo assume un ruolo per lo più negativo nelle fiabe, in particolare nella stranota vicenda di Cappuccetto rosso, dove appare metaforicamente in veste di seduttore di bambine ingenue. Due sono le versioni più popolari della celebre fiaba: quella di Charles Perrault (1628-1703) del 1697, e quella, di oltre un secolo posteriore, dei fratelli Jacob Ludwig (1785-1863) e Wilhelm Karl Grimm (1786-1859).

La prima è da considerarsi, secondo Bruno Bettelheim (1903-1990), meno interessante e meno “utile” rispetto alla seconda; Perrault ha banalizzato la storia e ne ha resa troppo esplicita la morale – ossia la raccomandazione, rivolta alle bambine, di non dare confidenze agli sconosciuti, soprattutto a quelli gentili e “seducenti”. La versione di Perrault, in cui alla fine la protagonista muore inghiottita dal lupo, lascia poco spazio all’immaginazione dei piccoli ascoltatori [1]: la scena in cui la piccola si spoglia, su invito del lupo, per andare a letto con lui, è troppo esplicita e allontana l’identificazione del lettore (il fatto che si presti senza reagire a questo tentativo di seduzione può essere interpretato come stupidità oppure come desiderio di essere sedotta).

I fratelli Grimm d’altro canto presentano una doppia versione [2] più complessa e affascinante, ricca di simbologie non così esplicite. Rimane, certo, centrarle il tema della paura di essere divorati (come anche in un’altra celebre fiaba, quella di Hänsel e Gretel) come metafora sessuale. Cappuccetto rosso è una bambina ingenua, che non teme il mondo e anzi ne viene sedotta dalla bellezza (si attarda a raccogliere fiori nonostante le raccomandazioni della madre), il che la espone al pericolo; seguire il principio di piacere anziché quello di realtà (le raccomandazioni materne) la porterà a farsi ingannare dal lupo (la parte animalesca del maschio, contrapposta a quella paterna e salvatrice rappresentata dal cacciatore). Non si può rimanere ingenui per tutta la vita, anche se l’ingenuità è un tratto che affascina.

Il rosso del cappuccio della protagonista «simboleggia le emozioni violente, naturalmente comprese quelle sessuali» [3]

Leggendo questa fiaba viene naturale chiedersi perché il lupo non “divori” subito la bambina appena la incontra nel bosco, anziché divorare prima la nonna (che è anche simbolo della madre). Perrault giustifica la cosa con la presenza, nel bosco, di altri uomini (i taglialegna) mentre nella versione dei Grimm emerge la necessità di sbarazzarsi prima della nonna/madre per godere appieno della sua conquista; è presente il riferimento al desiderio inconscio della figlia di essere sedotta da suo padre (il lupo)» [4]. L’atto sessuale viene visto dai bambini con un senso ambivalente di attrazione e repulsione, in quanto percepito come un atto di violenza ma anche di piacere: si veda la famosa illustrazione di Gustave Doré (1832-1883) che ritraee la bambina a letto con il lupo; mentre quest’ultimo appare tranquillo, Cappuccetto rosso è turbata da sentimenti ambivalenti, anche se le implicazioni sessuali rimangono preconsce, come è giusto.

Illustrazione di Gustave Doré per Cappuccetto Rosso

L’altra figura maschile, il cacciatore, è di segno diametricalmente opposta. Rappresenta il padre non nel lato seduttivo ma in quello salvifico e punitivo, il che esercita un grande fascino nei giovani lettori. Salva nonna e nipote sventrando il lupo e riempiendone lo stomaco di sassi, che poi lo uccideranno: nella mente del bambino l’uscita della protagonista dalla pancia è collegata inconsciamente al parto (al taglio cesareo) in quanto ipotizza che la madre sia rimasta incinta inghiottendo qualcosa. Perciò il lupo non muore durante lo sventramento: il bambino potrebbe associare il parto alla morte della madre e restarne traumatizzato. Questo “parto” simboleggia una rinascita a un livello superiore: la protagonista, benché inghiottita, non muore veramente ma si prepara a una seconda nascita, tornando in vita come una persona diversa. Il bambino capisce immediatamente questo processo di maturazione: «Cappuccetto Rosso perse l’innocenza dell’infanzia (…) e ne ebbe in cambio la saggezza che soltanto chi è “nato due volte” può possedere» [5].

La celebre fiaba ha avuto molte traduzioni, sia nella versione francese di Perrault che in quella tedesca dei Grimm. Riporto qui l’incipit in esperanto di Perrault (La Ruĝa-Ĉapeto) presente in rete, e a seguire l’incipit della versione, in esperanto, dei fratelli Grimm (Ruĝa Ĉapeto):

Estis iam en vilaĝo knabineto la plej bela kiun oni povis vidi; ŝia patrino kaj ankoraŭ pli ŝia avino amis ŝin ĝis freneziĝo. Tiu ĉi bona virino farigis al ŝi ruĝan ĉapeton, kiu plibeligis ŝin tiel, ke ĉie oni vokis ŝin: La Ruĝa-Ĉapeto.

En unu tago ŝia patrino farinte platajn kukojn, diris al ŝi: „Iru vidi kiel fartas via avino, oni diris al mi, ke ŝi estas malsana, portu al ŝi platan kukon, kaj tiun ĉi poteton da butero.“ La Ruĝa-Ĉapeto foriris tuj al ŝia avino, kiu loĝis en alia vilaĝo.

Transirante arbaron, ŝi renkontis Sinjoron Lupon, kiu forte deziris manĝi ŝin sed ne kuraĝis pro kelkaj arbohakistoj kiuj estis en la arbaro; li demandis ŝin kien ŝi iras. La malfeliĉa infanino ne scianta la danĝeron paroli kun Lupo, diris al li: „Mi iras viziti mian avinon kaj porti al ŝi platan kukon kaj poteton da butero, kiujn mia patrino al ŝi sendas. [6]

Iam estis dolĉa knabineto, kiun ĉiuj amis, kiu nur rigardis ŝin, sed ĉefe ŝia avino, kiu eĉ ne sciis, kion donaci al la infano. Iam ŝi donacis al ŝi kapuĉeton el ruĝa velura, kaj ĉar ĝi taŭgis al ŝi tiel bone kaj ĉar ŝi ne volis surhavi nenion ol ĝin, oni nomis ŝin nur Ruĝa Ĉapeto.
Iutage ŝia patrino diris al ŝi: “Venu, Ruĝa Ĉapeto, ĉi tie vi havas pecon da kuko kaj botelon da vino, alportu tion al via avino; ŝi estas malsana kaj malforta kaj ŝi refreŝiĝos per ili. Ekiru antaŭ ol ekvarmos, kaj kiam vi eliros, iru bele kaj bonkondute kaj ne forkuru de la vojo, alie vi falos kaj rompos la vitron kaj la avino havas nenion. Kaj kiam vi eniros ŝian loĝĉambron, ne forgesu diri bonan matenon kaj ne rigardu unue en ĉiujn angulojn!

Tra le fiabe italiane raccolte da Italo Calvino (1923-1985), a ragione considerato l’equivalente italiano dei fratelli Grimm, ho scelto tre brevi testi in cui ricompare la figura del lupo e della nonna e della mamma: Tre ragazze e il lupo (fiaba 26), Zio lupo (49)e La finta nonna (116).

La prima fiaba, raccontata dalle parti del Lago di Garda, vede tre sorelle alle prese col lupo goloso, che a differenza della fiaba dei Grimm, è più interessato a mangiare torte che carne umana (ma la simbologia è la stessa). Al posto della nonna, troviamo la mamma delle ragazze: la donna viene ingoiata e il lupo si mette a letto in attesa della minore, certo più sveglia di Cappuccetto rosso, la quale aveva tenuto testa al lupo nel bosco – là dove le altre due sorelle avevano fallito.

C’era tre sorelle, a lavorare in un paese. Gli venne la notizia che la loro mamma, che abitava a Borgoforte, stava mal da morte. Allora la sorella maggiore si preparò due sporte con dentro quattro fiaschi e quattro torte e partì per Borgoforte. Per strada trovò il lupo che le disse: – Dove corri così forte?

– Da mia mamma a Borgoforte, che le è preso mal da morte.

– Cosa porti in quelle sporte?

– Quattro fiaschi e quattro torte.

– Dàlle a me se no, alle corte, ch’io ti mangi è la tua sorte.

La ragazza diede tutto al lupo, e tornò dalle sorelle a gambe levate. Allora la seconda riempì la sporta lei e partì per Borgoforte. Trovò il lupo.

– Dove corri così forte?

– Da mia mamma a Borgoforte, che le è preso mal da morte.

– Cosa porti in quelle sporte?

– Quattro fiaschi e quattro torte.

– Dàlle a me se no, alle corte, ch’io ti mangi è la tua sorte.

Anche la seconda sorella vuotò le sporte e tornò via di corsa. Allora la più piccola disse: – Adesso ci vado un po’ io, – preparò le sporte e partì. Trovò il lupo.

– Dove corri così forte?

– Da mia mamma a Borgoforte, che le è preso il mal da morte.

– Cosa porti in quelle sporte?

– Quattro fiaschi e quattro torte.

– Dàlle a me se no, alla corte, ch’io ti mangi è la tua sorte.

Allora la più piccola prese una torta e la buttò al lupo che stava a bocca aperta. Era una torta che lei aveva preparato prima apposta, con dentro tanti chiodi. Il lupo la prese al volo e la morse e si punse tutto il palato. Sputò la torta, fece un balzo indietro, e scappò dicendo alla bambina: – Me la pagherai!

Di corsa, per certe scorciatoie che sapeva solo lui, il lupo arrivò a Borgoforte prima della bambina.

Entrò in casa della madre ammalata, la mangiò in un boccone, e si mise a letto al suo posto. Arrivò la bambina, vide la mamma che faceva appena capolino dalle lenzuola, e le disse: – Come sei diventata nera, mamma!

– Sono stati tutti i mali che ho avuto, bambina, – disse il lupo.

– Come t’è venuta la testa grossa, mamma!

– Sono stati tutti i pensieri che ho avuto, bambina.

– Lascia che t’abbracci, mamma, – disse la bambina e il lupo, ahm!, se la mangiò in un boccone. Inghiottita che ebbe la bambina, il lupo scappò fuori. Ma appena sulla via i paesani, a vedere un lupo uscire da una casa, gli si misero dietro con forche e badili, gli chiusero tutte le strade e l’ammazzarono.

Gli tagliarono subito la pancia e ne uscirono madre e figlia ancora vive. La mamma guarì e la bambina tornò dalle sorelle a dire: – Avete visto che io ce l’ho fatta.[7]

In Zio Lupo, fiaba romagnola, troviamo un altro ammonimento verso le bimbe disubbidienti e golose (che antepongono il principio di piacere, come direbbe Bettelheim). La bambina protagonista fa la fine di Cappuccetto rosso nella versione di Perrault: viene divorata senza che nessun cacciatore la salvi.

C’era una bambina golosa. Un giorno di Carnevale la maestra dice alle bambine: – Se siete buone a finire la maglia, vi do le frittelle.

Ma quella bambina non sapeva fare la maglia, e chiese d’andare al camerino. Si chiuse là dentro e ci s’addormentò. Quando tornò in scuola, le altre bambine s’erano mangiate tutte le frittelle. E lei andò a piangere da sua madre e a raccontarle tutta la storia.

– Sta’ buona, poverina. Ti farò io le frittelle, – disse la mamma. Ma la mamma era tanto povera che non aveva nemmeno la padella. – Va’ da Zio Lupo, a chiedergli se ci presta la padella.

La bambina andò alla casa di Zio Lupo. Bussò: “Bum, bum”.

– Chi è?

– Sono io!

– Tanti anni, tanti mesi che nessuno batte più a questa porta! Cosa vuoi?

– Mi manda la mamma, a chiedervi se ci prestate la padella per fare le frittelle.

– Aspetta che mi metto la camicia.

“Bum, bum”.

– Aspetta che mi metto i mutandoni.

“Bum, bum”.

– Aspetta che mi metto i pantaloni.

“Bum, bum”.

– Aspetta che mi metto la gabbana.

Finalmente Zio Lupo aperse e le diede la padella. – Io ve la presto, ma di’ alla mamma, che quando me la restituisce me la mandi piena di frittelle, con una pagnotta di pane e un fiasco di vino.

– Sì sì, vi porterò tutto.

Quando fu a casa, la mamma le fece tante buone frittelle, e ne lasciò una padellata per Zio Lupo.

Prima di sera disse alla bambina: – Porta le frittelle a Zio Lupo, e questa pagnotta di pane e questo fiasco di vino.

La bambina, golosa com’era, per strada cominciò ad annusare le frittelle. “Oh, che buon profumino! E se ne assaggiassi una?” E una due tre se le mangiò tutte, e per accompagnarle si mangiò tutto il pane e per mandarle giù si bevve anche il vino.

Allora, per riempire la padella, raccolse per la strada delle polpette di somaro. E il fiasco, lo riempì d’acqua sporca. E per pane fece una pagnotta con la calcina d’un muratore che lavorava per la strada. E quando arrivò da Zio Lupo gli diede tutta questa brutta roba.

Zio Lupo assaggia una frittella. – Puecc! Ma questa è polpetta di somaro! – Va subito per bere il vino per togliersi il sapore di bocca. – Puecc! Ma questa è acqua sporca! – Addenta un pezzo di pane e: – Puecc! Ma questa è calcina! – Guardò la bambina con occhi di fuoco e disse: – Stanotte ti vengo a mangiare!

La bambina corse a casa da sua mamma: – Stanotte viene Zio Lupo e mi mangia!

La mamma cominciò a chiudere porte, a chiudere finestre, a chiudere tutti i buchi della casa perché Zio Lupo non potesse entrare, ma si dimenticò di chiudere il camino.

Quando fu notte e la bambina era già a letto, si sentì la voce di Zio Lupo da fuori: – Adesso ti mangio! Sono vicino a casa! – Poi si sentì un passo sulle tegole: – Adesso ti mangio! Sono sul tetto!

Poi si sentì un gran rumore giù per il camino: – Adesso ti mangio! Sono nel camino!

– Mamma mamma, c’è il lupo!

– Nasconditi sotto le coperte!

– Adesso ti mangio! Sono nel focolare!

La bambina si rincantucciò nel letto, tremando come una foglia.

– Adesso ti mangio! Sono nella stanza!

La bambina trattenne il respiro.

– Adesso ti mangio! Sono ai piedi del letto! Ahm, che ti mangio! – E se la mangiò.

E così Zio Lupo mangia sempre le bambine golose. [8]

Infine in La finta nonna, fiaba abruzzese, si ripropone la scena del lupo nel letto della nonna, con la differenza che in questo caso non si tratta di un lupo ma di un’Orca, e alla bambina protagonista va meglio che a Cappuccetto rosso, in quanto si avvede in tempo di non trovarsi a letto con la nonna ma con un mostro e riesce a scappare, aiutata da altri personaggi secondari (il fiume e la porta) che ne favoriscono la fuga in quanto beneficiati dalla generosità della piccola, che viene così premiata.

Una mamma doveva setacciare la farina. Mandò la sua bambina dalla nonna, perché le prestasse il setaccio. La bambina preparò il panierino con la merenda: ciambelle e pan coll’olio; e si mise in strada.

Arrivò al fiume Giordano.

– Fiume Giordano, mi fai passare?

– Sì, se mi dài le tue ciambelle.

Il fiume Giordano era ghiotto di ciambelle che si divertiva a far girare nei suoi mulinelli.

La bambina buttò le ciambelle nel fiume, e il fiume abbassò le acque e la fece passare.

La bambina arrivò alla Porta Rastrello.

– Porta Rastrello, mi fai passare?

– Sì, se mi dài il tuo pan coll’olio.

La Porta Rastrello era ghiotta di pan coll’olio perché aveva i cardini arrugginiti e il pan coll’olio glieli ungeva.

La bambina diede il pan coll’olio alla porta e la porta si aperse e la lasciò passare.

Arrivò alla casa della nonna, ma l’uscio era chiuso.

– Nonna, nonna, vienimi ad aprire.

– Sono a letto malata. Entra dalla finestra.

– Non ci arrivo.

– Entra dalla gattaiola.

– Non ci passo.

– Allora aspetta -. Calò una fune e la tirò su dalla finestra. La stanza era buia. A letto c’era l’Orca, non la nonna, perché la nonna se l’era mangiata l’Orca, tutta intera dalla testa ai piedi, tranne i denti che li aveva messi a cuocere in un pentolino, e le orecchie che le aveva messe a friggere in una padella.

– Nonna, la mamma vuole il setaccio.

– Ora è tardi. Te lo darò domani. Vieni a letto.

– Nonna ho fame, prima voglio cena.

– Mangia i fagioletti che cuociono nel pentolino.

Nel pentolino c’erano i denti. La bambina rimestò col cucchiaio e disse: – Nonna, sono troppo duri.

– Allora mangia le frittelle che sono nella padella.

Nella padella c’erano le orecchie. La bambina le toccò con la forchetta e disse: – Nonna, non sono croccanti.

– Allora vieni a letto. Mangerai domani.

La bambina entrò in letto, vicino alla nonna. Le toccò una mano e disse: – Perché hai le mani così pelose, nonna?

– Per i troppi anelli che portavo alle dita.

Le toccò il petto. – Perché hai il petto così peloso, nonna?

– Per le troppe collane che portavo al collo.

Le toccò i fianchi. – Perché hai i fianchi così pelosi, nonna?

– Perché portavo il busto troppo stretto.

Le toccò la coda e pensò che, pelosa o non pelosa, la nonna di coda non ne aveva mai avuta. Quella doveva essere l’Orca, non la nonna. Allora disse: – Nonna, non posso addormentarmi se prima non vado a fare un bisognino.

La nonna disse: – Va’ a farlo nella stalla, ti calo io per la botola e poi ti tiro su.

La legò con la fune, e la calò nella stalla. La bambina appena fu giù si slegò, e alla fune legò una capra.

– Hai finito? – disse la nonna.

– Aspetta un momentino -. Finì di legare la capra. – Ecco, ho finito, tirami su.

L’Orca tira, tira, e la bambina si mette a gridare: – Orca pelosa! Orca pelosa! – Apre la stalla e scappa via. L’Orca tira e viene su la capra. Salta dal letto e corre dietro alla bambina.

Alla Porta Rastrello, l’Orca gridò da lontano: – Porta Rastrello, non farla passare!

Ma la Porta Rastrello disse: – Sì, che la faccio passare, perché m’ha dato il pan coll’olio.

Al fiume Giordano l’Orca gridò: – Fiume Giordano, non farla passare!

Ma il fiume Giordano disse: – Sì che la faccio passare, perché m’ha dato le ciambelle.

Quando l’Orca volle passare, il fiume Giordano non abbassò le sue acque e l’Orca fu trascinata via. Sulla riva la bambina le faceva gli sberleffi. [9]

Firenze, 3 febbraio 2021

Bibliografia

Bettelheim B., Il mondo incantato, Milano, Euroclub, 1983.

Calvino I., Fiabe italiane, Milano, Mondadori, 2005.


[1] «Per il bambino il valore di una fiaba è distrutto se qualcuno gliene chiarisce dettagliatamente il significato. Perrault fa qualcosa di peggio: ne limita il contenuto» Bettelheim B., Il mondo incantato, Milano, Euroclub, 1983, p. 166.

[2] Nella seconda versione, dopo il salvataggio del cacciatore, la protagonista viene adescata da un altro lupo, ma stavolta si comporta più saggiamente e riesce ad affrontarlo alleandosi con la nonna.

[3] Ibidem, p. 170.

[4] Ibidem, p. 172.

[5] Ibidem, p. 180.

[6] Traduzione di Sarpy, sul web.

[7] Calvino I., Fiabe italiane, Milano, Mondadori, 2005, pp. 111-112.

[8] Ibidem, pp. 223-225.

[9] Ibidem, pp. 603-605.

O vibrație poetică din România

O vibrație poetică din România

Postat pe 26 octombrie 2020
De Massimo Acciai Baggiani – trad. Lucia Dragotescu

Acum câteva zile a sosit un colet din București. Înăuntru am găsit patru cărți de poezie: una a prietenei Lucia Dragotescu (Poezii / Poesie), două a fiicei sale Codruța (Lipograme / Lippogrammi, și Tautograme și Lipograme) și una a poetului Aurelian Sorin Dumitrescu (Între cer și pământ / Tra Cielo e Terra), toate publicate de editura Fundației România de Mâine în acest nefericit an 2020. Toate bilingve – în română și italiană – cu excepția uneia. Traducerile în italiană sunt făcute de Lucia, o prietenă dragă și colegă scriitoare din 2007, când am cunoscut-o prin prietenul comun Paolo Filippi (a cărui amintire rămâne și în Poezii / Poesie, după cartea dedicată în mod explicit lui Poem-Poema / Iubire pierdută – Amore perduto [2]). Pe scurt, o vibrație de poezie a venit de departe pentru a lumina ziua în fața virusului Covid.
În prima carte, cea a Luciei, există o prefață a mea (în italiană și în română), la care mă refer. Lucia își declară dragostea pentru pământul său și tradițiile sale, inclusiv literare, și deschiderea către lume, spre alte culturi și limbi – în special cea italiană, pe care o iubește profund. Așa cum declară autoarea în Epilogul final, volumul își colectează producția poetică începând cu anii șaizeci ai secolului trecut, pe când frecventa liceul (am început să versific și eu la acea vârstă): un volum dedicat fiicei sale, conceput fără scopuri comerciale, dar donat de autoare celor mai mari biblioteci românești, moldovenești și italiene (eu însumi am livrat exemplarele Bibliotecii Centrale Naționale din Florența).
Din poeziile Codruței am avut plăcerea și onoarea de a publica câteva texte în Segreti di Pulcinella, împreună cu cele ale mamei Lucia. Lipogramele ei (amintiți-vă că prin „lipogramă” înțelegem un text în care este interzisă o anumită literă) au fost redate, în traducere, pur și simplu prin ștergerea literei lipsă (dar înțelegerea nu este afectată), în timp ce în original poetul a recurs la sinonime. Poeziile indică adesea pandemia pe care o trăim, cu tonuri apocaliptice. Se vorbește și despre religie, credința tradițională revine adesea. De asemenea, sunt interesante tautogramele (care, spre deosebire de lipogramă, este un text ale cărui cuvinte încep cu aceeași literă – texte netraductibile, sau foarte dificil de tradus, fără a pierde calificarea de “tautogramă”): le-am citit direct în română, o limbă pe care am început să o învăț anul trecut.
În sfârșit, câteva cuvinte și despre cartea lui Dumitrescu, autor însuși prezent în paginile electronice ale revistei „Segreti di Pulcinella” (și întotdeauna în versiunea dublă, editată de Lucia). Dumitrescu, coleg bibliotecar al Luciei Dragotescu, care s-a ocupat de îngrijirea acestei ediții ak volumulei (și autoare a prefaței), a reunit poezii noi și vechi într-un fel de „mărturisire făcută cititorului” pe teme apropiate vieții sale: dragostea, anotimpurile, istoria poporului român, rădăcinile, amintirile copilăriei, versuri care vin din inimă, precum și cele ale Luciei și Codruței: o inimă care bate pentru poezie și pentru identitatea românească.
Florența, 26 octombrie 2020

Bibliografie

Dragotescu C., Lipograme / Lipogrammi, București, Editura Fundației România de Mâine, 2020.
Dragotescu C., Tautograme și Lipograme, București, Editura Fundației România de Mâine, 2020.
Dragotescu L., Poezii / Poesie, București, Editura Fundației România de Mâine, 2020.
Dumitrescu A.S., Între cer și pământ / Tra Ciello e Terra, București, Editura Fundației România de Mâine, 2020.

Uno dei libri più belli che ho letto

Di Massimo Acciai Baggiani

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Michael Ende (1929-1995) è universalmente noto per libri “per bambini” quali Momo e La storia infinita ma, come altri grandi narratori per l’infanzia (ad esempio Roald Dahl), ha scritto anche cose geniali per un pubblico più adulto, e anche la sua produzione per i più giovani è godibilissima anche dai “grandi”. È il caso di una raccolta di racconti uscita in Germania tre anni prima della scomparsa di questo straordinario autore: La prigione della libertà. Io ho letto l’edizione italiana proprio qualche settimana prima della morte di Ende, quando avevo vent’anni, e ho sentito il desiderio di rileggerla a un quarto di secolo di distanza, durante il nuovo lockdown dovuto alla seconda ondata del Covid. Una lettura che mi aveva entusiasmato da giovane e che mi ha emozionato di nuovo. Tanta acqua è passata sotto i ponti, e si dice giustamente che una seconda lettura di un testo a distanza di tanti anni è molto diversa: tante cose non notate allora le ho colte adesso, a partire dai riferimenti colti e le fonti che hanno ispirato Ende.

Un libro magico e filosofico, escheriano, che fa riflettere e sognare. L’ossimoro del titolo si spiega nell’omonimo racconto, il penultimo della raccolta, ma la riflessione sulla libertà dell’Uomo attraversa tutto il libro, insieme al tema del viaggio di ricerca. Il libro si apre con un capolavoro assoluto: Il traguardo di un lungo viaggio. Cyril, il protagonista, figlio di un lord inglese, non ha mai avuto una vera e propria casa, sempre in viaggio col padre da un albergo all’altro; tuttavia sente come una nostalgia cocente per qualcosa che non sa spiegare. Non è certo un eroe, il nostro Cyril, anzi è un personaggio tutt’altro che positivo: chiuso nel suo egoismo sarà fonte di dolore per chi gli sta accanto. Ma non è nemmeno una persona assolutamente malvagia. È un’anima ombrosa, questo sì, in pena, impegnata in una sorta di ricerca mistica del “paradiso”. Molti sono i punti di contatto con un altro grande giovane dannato inglese di fine Ottocento (da un indizio si ricava che il lungo racconto è ambientato in quegli anni): il Dorian Gray del capolavoro di Oscar Wilde (1854-1900). Il fascino di quest’ultimo fa da contraltare con l’aspetto tutt’altro che piacevole di Cyril, ma entrambi spezzano un cuore femminile, sono colpevoli di omicidio, sono insoddisfatti della vita, cercano qualcosa di più. Doria Gray legherà il suo destino a un quadro, così come Cyril, il quale scoprirà in un misterioso dipinto il suo destino: un palazzo fantastico in una landa desolata, un luogo che potrebbe chiamare “casa”. Un luogo che cercherà di raggiungere con qualsiasi mezzo, dopo essere stato indirettamente indirizzato da uno strano vecchio incontrato nel ghetto veneziano. Il diciannovesimo secolo, ricordiamo, è tempo di grandi esplorazioni: gli “spazi bianchi” sull’atlante vanno via via riempiendosi, restano sempre meno luoghi da scoprire. In uno di questi, precisamente tra le montagne dell’Hindu Kush, si trova il palazzo, che potrebbe essere creato proprio dalla fede incrollabile del protagonista: si confronti a tal proposito il dialogo tra Cyril e il vecchio ebreo con un racconto di Jorge Luis Borges (1899-1986), Tlön, Uqbar, Orbis Tertius[1]. Borges nel suo racconto lungo mostra come le idee possano manifestarsi nel mondo fisico, rifacendosi alle teorie del filosofo George Berkeley (1685-1753).

Il secondo racconto sarà dedicato esplicitamente al grande scrittore argentino: Il corridoio di Borromeo Colmi parla di un luogo impossibile, un corridoio progettato e fatto costruire, a Roma, dall’architetto-mago seicentesco (personaggio inventato da Ende) in modo che chi lo percorre diventa sempre più piccolo, fino a perdersi, forse, nel mondo subatomico o forse in un’altra dimensione. Il riferimento a Borges è presente soprattutto nello stile, nel gusto per le invenzioni biografiche e bibliografiche.

Un altro oggetto impossibile è il protagonista del terzo racconto, La casa in periferia: un edificio che esiste solo all’esterno. La scoperta è di due ragazzini, due fratelli, nella Germania nazista. Anche qui è forte l’impronta borgesiana, che attraversa tutti i racconti: il racconto tra l’altro si riallaccia direttamente al precedente, citando, all’inizio della lunga lettera del professore/io narrante della storia, proprio il corridoio di Colmi.

Anche il quarto racconto (Un po’ piccola, in effetti) presenta un paradosso spaziale: a Roma il protagonista accetta il passaggio da una famiglia locale a bordo della piccola utilitaria del capofamiglia che, all’interno, si rivelerà gigantesca e, di stranezza in stranezza, il protagonista arriverà a perdere il lume della ragione quando scoprirà, in fondo all’auto… un garage! Ende ha vissuto a lungo nella Capitale italiana; amava profondamente questa città e l’ha resa protagonista di varie opere (Momo ad esempio si svolge a Roma, anche se non viene fatto il nome della città). L’amava anche per il suo aspetto fantastico e misterioso.

Entrami i racconti, La casa in periferia e Un po’ piccola, in effetti, sfidano le leggi della fisica come le litografie e incisioni di Maurits Cornelis Escher (1898-1972)[2].

Le catacombe di Mizraim si svolge in un mondo sotterraneo dove vive il Popolo delle Ombre, sottomesso a una dittatura che ricorda un po’ quella del Mondo nuovo di Aldous Huxley: tutti vivono in una routine priva di senso, ma sono a loro modo felici, inconsapevoli della propria prigionia, sotto effetto di un fungo. L’unico su cui il fungo non produce oblio e felicità è il protagonista, Iwri, l’unico anche dotato di libero pensiero: cercherà la via per il mondo esterno, dove spera di trovare la Verità e la Libertà, e quando l’avrà trovata cercherà di portare il popolo alla ribellione contro il “benevolo” dittatore Bechmoth, dapprima privandolo della droga (si pensi alla scena in cui il Selvaggio distrugge le scorte di Soma nel romanzo di Huxley) e poi mettendosi alla guida dei ribelli. Come il dittatore mondiale Mustapha Mond (sempre in Huxley), anche Bechmoth è un personaggio ambiguo, che riesce a insinuare il dubbio nel popolo ribelle, e nello stesso lettore, che in realtà lui non ha fatto altro che proteggere i suoi “figli” dall’infelicità che avrebbero trovato all’esterno, luogo, a quanto dice, inadatto alla vita. Il popolo, dopo qualche attimo di smarrimento, si rivolta contro lo stesso Iwri e lo getta all’Esterno, dove non si sa se troverà il paradiso o l’inferno.

Dagli appunti di Max Muto, il viandante del sogno presenta la missione infinita del protagonista, il quale deve risolvere l’enigma di una città “vivente” nel deserto per poter compiere una missione precedente, che gli servirà per una missione ancora più vecchia, e così via, in una successione apparentemente senza fine, tanto che l’eroe stesso si è dimenticato il punto di partenza del suo viaggio. Alla fine riuscirà a sciogliere l’enigma ma prenderà coscienza che così potrà compiere tutte le sue missioni precedenti e preferirà quindi creare una nuova successione infinita, perché il senso del viaggio non è il punto d’arrivo ma l’azione stessa del viaggiare. Questa Città Bianca immaginata da Ende non sfigurerebbe tra le Città invisibili[3] di Italo Calvino (1923-1985).

La prigione della libertà è il più filosofico e borgesiano dei racconti, e anche il più inquietante della raccolta. Si parla nientemeno che del libero arbitrio. Intere biblioteche sono state scritte su questo argomento, liquidato dalle religioni monoteiste con un semplice abbandonarsi alla volontà di dio («Non cade foglia che Dio non voglia» dice il proverbio). Il mendicante cieco del racconto, ambientato nel mondo islamico (“islam”, ricordiamo, significa “sottomissione a Dio”) ha fatto una sorta di patto col diavolo (quello musulmano, ovviamente: Iblis) che lo imprigiona in una stanza enorme su cui si aprono 111 porte. Lui dovrà sceglierne una per uscire, ma non c’è alcun indizio su quale possa essere quella giusta, e la scelta sarà irrevocabile visto che, una volta aperta una porta, tutte le altre scompariranno. Dietro alla porta prescelta potrà esserci un mostro terribile o un giardino di delizie. Il protagonista è letteralmente paralizzato dalla scelta, sapendo che non c’è Allah a guidare la sua scelta ma ne sarà totalmente responsabile. Se anche non scegliere è una scelta, allora questa sarà la via “scelta” dal protagonista. Chiara è la metafora della nostra vita, fatta di innumerevoli “porte” che, una volta chiuse, scompaiono (un fisico quantistico direbbe che “le possibilità collassano”). Ogni porta si apre su un universo ucronico, “divergente” come direbbe il mio amico Carlo Menzinger: quante volte ci siamo domandati, una volta messa in atto una certa scelta, cosa sarebbe accaduto se avessimo preso una decisione diversa? Non lo sapremo mai, se non usando la fantasia. Solo a livello quantistico due possibilità possono coesistere nel medesimo universo (o, meglio, multiverso); non nella nostra quotidianità. A noi il “terribile peso” della libertà e della responsabilità delle nostre azioni, a cui io – da ateo convinto – non rinuncerei comunque mai.

Questo libro straordinario si chiude con un racconto sconcertante: La leggenda di Indicavia. Il racconto ripercorre l’intera esistenza di un “cercatore di miracoli”, la cui sete di conoscenza si corrompe nella ciarlataneria e nel vizio, tanto che quando finalmente trova l’accesso al Mondo dei Veri Miracoli non si sente degno di attraversarlo; preferirà indicarlo ad altri cercatori più puri di lui. Il cerchio si chiude: la ricerca di Hieronumus Horleiper, alias Matto, alias conte Athanasio d’Arcana, alias Indicavia (quanti nomi cambia, mutando di volta in volta identità!), si ricollega a quella di Cyril Abercomby, e a quella di tutte le anime sensibili che vivono nel fango ma guardano alle stelle (per dirla con Oscar Wilde).

Mi piace chiudere questo mio articolo, che vuole essere un invito a scoprire questi otto piccoli capolavori che compongono uno dei libri più interessanti (a mio parere) della narrativa del secolo scorso, con una citazione dall’ultimo racconto. Un brano in cui Ende riflette sul ruolo di fingitore dell’artista (scrittore compreso), il quale, come un prestigiatore, produce “miracoli” (fa emozionare il lettore con storie inventate) ma non ci crede in prima persona (quanto lavoro c’è dietro alle trame di un romanzo o di un racconto, ben dissimulato dalla bravura dell’autore!): «Un artista non deve credere ai miracoli, altrimenti non è in grado di produrli. Per questo, chi crede nei miracoli non diventerà mai un vero artista. […] il nostro mestiere è la bugia, l’illusione. Tutta l’arte è così. Un pittore dipinge un quadro[4], la gente l’osserva rapita, a volte paga anche molto denaro per esso, ma, in realtà, di che si tratta? Di un pezzo di tela e di un po’ di colori. Tutto il resto è niente, non esiste! […] e anche i poeti, che raccontano lunghe storie di fatti mai accaduto, e che mai sarebbero potuti accadere […] Il mondo vuole essere ingannato. […] Solo, vi sono bugiardi buoni e cattivi, e un vero artista ha da essere un maestro della menzogna.»[5] Si confronti con l’estetica di Oscar Wilde.

Firenze, 18 novembre 2020

Bibliografia

Ende M., La prigione della libertà, Milano, TEA, 1995.


[1] Nella raccolta Finzioni (1944).

[2] Una cui opera è giustamente riportata nella copertina dell’edizione italiana del libro di Ende.

[3] Libro del 1972.

[4] Altro punto di contatto con Il traguardo di un lungo viaggio.

[5] Ende M., La prigione della libertà, Milano, TEA, 1995, pp. 195-196.

La fragilità di Leopardi

Di Massimo Acciai Baggiani

Alessandro D’Avenia è un autore che non amo particolarmente, anche se i suoi romanzi non mi sono dispiaciuti. Quando sono arrivato però alla saggistica, in particolare a quella sua strana rilettura di Giacomo Leopardi che è L’arte di essere fragili (sottotitolo: Come Leopardi può salvarti la vita), sono rimasto piuttosto perplesso. Non è stata una lettura facile per me: il libro mi ha respinto fin dalle prime pagine, ma io mi sono incaponito a leggerlo fino in fondo, anche su consiglio di amici che lo avevano apprezzato. La sensazione che mi è rimasta è un po’ quella di aver sprecato il mio tempo.

Ovviamente la promessa del sottotitolo non è stata mantenuta. Se anche le poesie del celebre recanatese possano salvare la vita a qualcuno, certo il libro di D’Avenia non chiarisce come: sia a causa del linguaggio piuttosto astratto e fumoso (linguaggio che vorrebbe essere “poetico” ma che finisce per essere ermetico), sia perché in realtà all’autore piace più parlare di se stesso che di Leopardi, del quale tra l’altro dà una lettura forzata e tendenziosa in senso cristiano. Questa operazione di una lettura cattolica di Leopardi – che è in pratica un tradimento della sua opera poetica e in prosa – l’aveva già proposta molto prima di lui un tale Luigi Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione, il cui stile è forse non a caso molto vicino a quello di D’Avenia (ossia astratto e fumoso): in altre parole, le pagine di D’Avenia puzzano di ciellino, con uso abbondante di quelle che sono le parole chiave dei libri-predica di Giussani (già sentite fino alla nausea quando frequentavo quel discutibile movimento religioso): “stupore”, “mistero”, “destino”, “rapimento”.

L’unica conclusione che condivido di D’Avenia è quella secondo la quale – in certi casi – i libri possono salvare la vita; anche se non necessariamente quelli di Leopardi. Nel mio caso, come per quei pochi italiani amanti della lettura, i libri sono stati salvifici durante il lockdown, insieme alla scrittura che di questi si nutre, insieme del vissuto di ogni scrittore. Durante quei mesi terribili ho letto un po’ di tutto, ma certo non mi sarebbe mai venuto in mente di leggere i Canti, le Operette morali o lo Zibaldone – con tutto il rispetto per il grande Giacomo, uno dei pochi poeti che ho amato durante gli anni di scuola ed approfondito successivamente – perché ero già abbastanza depresso di mio.

Certo, l’equazione, piuttosto superficiale, “Leopardi = figato”, non trova d’accordo nemmeno me, ma non mi trovo affatto d’accordo con D’Avenia quando vuole trovare dell’ottimismo a tutti i costi in un autore sicuramente grande ma profondamente deluso dall’ «infinita vanità del tutto» [1]. D’Avenia sostiene che proprio il fatto che dal “nulla” che ci circonda abbia tratto dei versi stupendi inficia il suo messaggio nichilista e pessimista, come se la scrittura non fosse un tentativo di esorcizzare quei demoni che ogni autore ha dentro. La fragilità di Leopardi è quella degli animi sensibili, che hanno il coraggio di guardare l’abisso sul cui bordo trascorriamo i nostri brevi anni, ed è anche quella di chi ha il coraggio di guardare questo abisso e trovare le parole per descriverlo, ma certo non indica il modo per uscirne. Leopardi era ateo, mettetevelo in testa cari cattolici: ateo, ateissimo, fino alla fine, così come lo era Shakyamuni nonostante i ridicoli tentativi di alcuni cattolici nel negarne l’ateismo. A voi cattolici farebbe piacere se si iniziasse a sostenere che in fondo Gesù era ateo? La salvezza non può venire né da Leopardi né da qualche divinità più di quanto la guarigione può venire da un placebo: forse potrebbe venire dall’amore, come suggerisce D’Avenia, ma il nostro Giacomino l’ha presa in quel posto anche da quel punto di vista, come tanti prima e dopo di lui.

Personalmente la vedevo esattamente come l’apostolo del “pessimismo cosmico” quando avevo 15-20 anni, prima di incontrare il buddismo: ma questa è un’altra storia che esula da questo mio breve articolo “leopardiano”.

Il saggio di D’Avenia è scritto sotto forma di lettere a senso unico al grande recanatese… è facile scrivere a chi non può rispondere (rifacendosi al principio silenzio-assenso?), ma penso che Leopardi nelle sue ipotetiche repliche a queste lettere, che sfidano le leggi temporali, avrebbe pure lui molto da contestare di questa sua rilettura moderna.

Firenze, 31 ottobre 2020

Bibliografia

D’Avenia A., L’arte di essere fragili, Milano, Mondadori, 2016.


[1] Da A se stesso.