Giovanni e Mmquax

«Ma da che pianeta vieni? Non ho mai visto un imbranato più imbranato di te. Sembra che al tuo paese non ci sia niente: non hai mai visto gli alberi, altrimenti perché ti fermeresti a guardarli così da vicino? E non parliamo poi dei fiori! Ogni nuova forma, ogni nuovo colore, ti stupisce e rapisce la tua attenzione. Devi dirmi la verità come fai a non aver mai sentito il calore del sole, il fresco dell’ombra e il bello del camminare sull’erba a piedi nudi? Non puoi essere un terrestre, sulla Terra tutti conoscono queste sensazioni.»

«******°°°°°§§§§§§§»

«Ah ecco adesso ho capito tutto! Vieni da lontano, da tanto lontano parli una lingua che non conosco. Più che una lingua mi è sembrato uno stridere di denti e metallo. Sai che ti dico “coso”? Sei piccolo come me, hai qualcosa come due gambe e probabilmente anche due braccia. Invece i tuoi occhi mi piacciono, sorridere ti viene spontaneo e se ti va, puoi giocare con me!»

«J©Δ¥À»

«Fantastico! Io e te ci capiamo benissimo! Hai visto il film “E.T.”? No? Ma non hai nemmeno la tivù sul tuo pianeta? Che giochi fai? Facciamo una corsa ti va?»

«[»ªª»

«Era un sì? Mi pare di aver capito che hai voglia di correre! Dài guarda che bel prato, seguimi! Rotola dai, buttati sull’erba è morbido, fresco, non ci sono sassi, fai come me, senti che bellezza. Io mi chiamo Giovanni e ho dieci anni, ti posso chiamare Max, se sei d’accordo. Ah, non parlare non ti capisco, fai un cenno con la testa. Fai così se ti piace, così se non vuoi.»

«Sì mi piace»

«Non c’ho capito niente! Max è bello stare qui vero? Hai fame? Possiamo fare a metà della merenda che mi ha dato la mamma. Tieni assaggia, sono biscotti con le mandorle, li ha fatti la nonna ieri, prova a dargli un morso. Eh che ti dicevo, sono buonissimi!»

«[JJgrr…»

«Oh! Stai provando a parlare nella mia lingua? Sai ho visto un film di fantascienza dove un extraterrestre parlava in un aggeggio colorato che riusciva a tradurre nella nostra lingua quello che diceva. Ce l’hai anche tu?»

«Gio $¥Xni»

«Bravo Max! Giovanni e Max grandi amici. Prova ancora! Vuoi un altro biscotto? Oh è l’ultimo, facciamo a metà da bravi amici!»

«Maxµx… sì.»

«Adesso ci vorrebbe un bicchier d’acqua! Avete l’acqua su da te?»

«Nonna… x»

«La nonna mi ha comprato un bicchiere speciale guarda: si chiude e si apre così, sta in tasca e non dà fastidio e quando voglio bere vado alla fonte, lo apro e bevo. Andiamo alla fonte a bere? L’acqua è fresca e buona, dai ti faccio provare anche questa specialità della Terra.»

«Uaaaquaaaaaaaa»

«Corri! Sei diventato bravo, sei più dritto adesso; ti voglio far assaggiare l’acqua, non sai cos’è? Sentirai che buona!»

«Giovvvanniii, Giovanni, Giovanni!!»

«Bravo, ci sei riuscito! Adesso prova il tuo nome: Mm aa x»

«Maaaz… mass… Max!»

«Eccoci qua: vedi questa che scorre a valle è l’acqua! Toccala, senti come è fresca? È strana l’acqua vero? Ne vedi tanta ma non la puoi prendere! Però quando arriva giù a valle ci puoi giocare, nuotare, fare i tuffi. Ehi non fare quella faccia triste, un giorno ti ci porto e ci divertiremo da matti, promesso, adesso però allunga la mano, prova a sentirla, poi ne beviamo un po’, va bene?»

«Uuhh ¶Âë … acqua! Questa è acqua buona, mangio acqua!»

«Stai facendo progressi, impari alla svelta: sei come me. Anche io imparo presto, la maestra mi dice sempre che ho l’intelligenza per… sper… picace… perspicace. Credi a me, quando andremo a casa la mamma non si accorgerà che sei strano, dirò che sei un mio compagno. Allora prendiamo il bicchiere e beviamo un po’ d’acqua prova!»

«Acqua? Bicchiere? Acqua ti prendo con le mani!»

«Max no! Non si fa prendere l’acqua, scappa via, meglio con questo. Vedi come è bello pulito, è trasparente così ci vedi a traverso. Una volta usavano le foglie grandi come piatti ma per bere era un problema, credimi l’unico modo è questo piccolo recipiente. Prova, assaggia, manda giù!»

«Acqua! Buona acqua! Bicchiere, no foglia, meglio questo! Giovanni e Max amici!»

«Lo puoi dire forte Max! Nessuno ci dividerà, staremo sempre insieme! Me lo dici ora il tuo vero nome?»

«Mmquax!»

«Max? Ma dai! Ci ho preso allora! Torniamo a casa Max, prima che faccia buio. Non avete il buio sul vostro pianeta?».

                                                                                               Milena Beltrandi

Nome e cognome – Milena Beltrandi

Dopo l’ennesima umiliazione Nome stabilì che era abbastanza grande da poter decidere da sola quindi respirò forte, sistemò il vestito e bussò alla porta. «Avanti!» Nome annuì decisa ed entrò: il suo principale le sorrise.

«Avvocato, mi scusi, entro stasera deve finire la memoria di replica per il processo Romanelli, i termini scadono domani! Posso dirle una cosa? Non sono d’accordo con quanto è stato deciso per me senza consultarmi, non ho intenzione di licenziarmi!» Nome abbassò gli occhi, certa che lasciare quel lavoro fosse una pazzia: aveva superato i tre anni di apprendistato, ora si occupava direttamente degli avvocati di studio, aveva avuto un piccolo aumento ed era brava a ricordare le scadenze e le abitudini dei professionisti dello studio, ricordava il tè alle quattro dell’avvocatessa nella stanza rossa, con un goccio di latte e poco zucchero; controllava che ci fosse sempre la scatola di gianduiotti nella potiche di cristallo sul tavolo della biblioteca dove si ricevevano i clienti più importanti e le piaceva correre nei corridoi per rispondere alle loro chiamate, si sentiva gratificata dai loro sorrisi, era brava, perché lasciare? 

«Purtroppo sei minorenne e noi abbiamo le mani legate, non possiamo darti l’aumento che chiede tuo padre e la conclusione è “niente Nome”! Ci dispiace immensamente ma dovremo fare a meno di te, sei quasi una figlia per noi ma la legge è legge e tra quindici giorni dovrai lasciare l’ufficio! Però sappi che qui per te c’è sempre un posto, quando avrai compiuto i ventun anni potrai decidere da sola e, se vorrai tornare, noi ti accoglieremo a braccia aperte» così Nome scoprì che non era abbastanza grande da decidere da sola e di conseguenza trascorsi i giorni di preavviso a malincuore lasciò l’ufficio. Per fortuna Nome conosceva il posto dove rivolgersi per avere l’indicazione di un lavoro e, infatti, la ragazza allo sportello le indicò l’indirizzo di un Notaio che cercava una dattilografa in grado di scrivere sotto dettatura. Nome telefonò il giorno stesso e dopo un breve colloquio fu assunta dal Notaio. Duttile e predisposta a quel tipo di lavoro, Nome in poco tempo acquistò la fiducia del Pubblico Ufficiale e, oltre a scrivere sotto dettatura, seguiva il professionista presso gli uffici per le pratiche notarili di rilievo come le indagini storiche sui fabbricati oggetto di compravendita. Il traguardo della maggiore età si avvicinava ma Nome andava dimenticandosi dello scotto che le aveva fatto desiderare di essere adulta; la condizione era cambiata, in ufficio non era sola e l’altra segretaria era poco più grande di lei, un’amica con cui condividere opinioni e gusti della loro età.

Un giorno Nome, in ufficio, trovò Amica triste. Finiti gli studi, il suo fidanzato, sarebbe partito per il servizio militare e, nella stessa settimana, anche il cugino preferito aveva il treno: uno destinato a Taranto e l’altro a Fano. Nome conosceva bene Fano, aveva abitato là sei anni, era una bella cittadina, suo cugino si sarebbe trovato bene, la consolò. Fu allora che ad Amica venne un’idea strepitosa: lei avrebbe scritto e sostenuto il suo fidanzato a Taranto mentre Nome avrebbe potuto scrivere della città di Fano e sostenere il cugino. Le due ragazze risero della trovata e un giorno, il 21 marzo, si impegnarono a scrivere ai due ragazzi lontani. Amica scrisse prima al suo fidanzato con un post scriptum e saluti da parte di Nome, poi al cugino con un accenno alla nuova collega a cui lasciava la penna. 

Galeotta fu la lettera!

Due giorni dopo le ragazze ricevettero posta: Amica dal fidanzato e Nome da Cugino.

In ufficio nei momenti di pausa le due amiche si scambiavano i racconti delle due esperienze militari e si sentivano come se, loro stesse, fossero in divisa comandate da sergenti severi e irreprensibili. Insieme inventavano modi di scrivere per divertire i loro beniamini lontani; spezzare

“la noia della naja” divertiva e univa anche le due colleghe in un’amicizia spontanea. Una volta Nome arrivò in ufficio con un paio di fogli di carta da lettere verde accecante con orribili disegni damascati agli angoli, inguardabile: ideale per stupire i destinatari dopo la missiva scritta con il succo del limone che, entrambi, avevano decifrato descrivendo, nella risposta, quanto erano stati bravi e intuitivi. Era diventato un gioco tra loro e, anche se ben presto, Amica e Fidanzato si dissociarono, Nome e Cugino continuarono il gioco inventando, entrambi, trabocchetti e criptature epistolari. 

Intanto il mondo fuori parlava di cambiare il mondo: i giovani si facevano sentire imponendo le loro idee di progresso. Ma per Nome e Amica c’erano solo Fidanzato e Cugino lontani e le canzoni struggenti che parlavano d’amore e distacco.

Progresso fu l’anticipazione della maggiore età che passò da ventun anni a diciotto quando Nome aveva compiuto da poco i venti. Si trovò così maggiorenne in anticipo di un anno, ma oramai lo studio dove avrebbe voluto rimanere l’aveva sostituita con una ottima impiegata e lei non avrebbe potuto lasciare il Notaio e Amica e non solo perché ad essa era collegata l’amicizia con Cugino. Accortosi di un errore l’Esercito anticipò la fine del servizio Militare per Cugino che, unico maschio di madre vedova, non avrebbe dovuto partire e gli fece trascorrere gli ultimi mesi nella città d’origine. Così Nome poté incontrarlo, conoscerlo di persona, scambiare con lui qualche pensiero. La simpatia che li aveva uniti durante la lontananza, il continuo sollecitare la fantasia per trovare il modo di scovare la diavoleria nella lettera dell’altro aveva forgiato in loro una muta complicità. Ci volle poco perché entrambi scoprissero che non era solo simpatia. 

Ci fu un attentato ai tralicci dell’alta tensione in Veneto e qualche tempo dopo un ordigno mandò in tilt la cabina dei comandi ferroviari sulla linea Firenze – Arezzo e, alcuni giorni dopo fu rinvenuta, lungo i binari della stessa tratta, una bomba innescata. Molti militari di leva furono concentrati lungo la linea ferroviaria per scongiurare altri attentati e destabilizzare l’autonomia del terrorista politico che agiva per minare la democrazia. Anche Cugino fu mandato ad Arezzo come militare sanitario per un mese. 

“La lontananza sai è come il vento spegne i fuochi piccoli ma accende quelli grandi” mai altre parole furono più veritiere. 

Firenze – Arezzo in auto con Amica e Fidanzato confermarono che, tra Nome e Cugino, c’era più di una simpatica amicizia. 

L’ultima stelletta, la decima per Cugino, segnò l’inizio di una storia d’amore duratura basata sulla serenità e l’allegria. Scherzare, prendersi in giro, ironizzare sui propri difetti sembra difficile, ma aiuta a superare gli ostacoli più grossi. 

Così verso la fine di un mese di aprile, nel giorno della Liberazione d’Italia, San Marco per il calendario religioso, Cugino cambiò il suo nome! 

All’ufficiale preposto e al Ministro di Dio dichiarò di chiamarsi Cognome sposò Nome e vissero felici e contenti per lungo tempo. Ad oggi, anzi domani, io che li conosco bene, posso dire che hanno raggiunto il traguardo dei quarantasette anni di matrimonio e hanno intenzione di stare ancora insieme. 

(Nome) Milena Beltrandi

I Pooh divergenti (quinta e ultima parte)

Di Massimo Acciai Baggiani

L’autore del racconto, Massimo Acciai Baggiani – Foto di Italo Magnelli

[quarta parte]

17

«E così ti ha baciato, d’amblée?» domandò l’amico mentre guidava in autostrada.

«Eh sì.»

«E tu?»

«Io… ho ricambiato!»

«Bravo! Così ti voglio! Il ragazzo si è svegliato. Bene, adesso che avete rotto il ghiaccio, cosa pensate di fare?»

«Per il momento non sappiamo, dopo tutto abbiamo solo quindici anni. Ha promesso di portarmi con sé nel futuro, o meglio, in uno dei possibili futuri ucronici a mia scelta.»

«Spiegami meglio questa cosa dell’ucronia, non l’ho mica capita tanto bene…»

Per il ragazzo era un invito a nozze.

«Te ne parlo da scrittore di fantascienza, ma la scienza stessa ha detto la sua in merito. Prendiamo come esempio la vita di un uomo o una donna. Lui o lei si trova ad operare un’infinità di scelte nella propria vita, dando una direzione piuttosto che un’altra. Mettiamo che questa persona sia indecisa se uscire per andare al cinema, nonostante la pioggia, o restarsene a casa: nel primo caso magari viene investita da un’auto, nel secondo caso si salva e passa una serata noiosa ma tranquilla. A un certo punto prende una decisione: resta a casa. L’universo si biforca: ciascuna delle due versioni della stessa persona è convinta che quello in cui vive sia l’unico mondo esistente, e in un certo senso ha ragione perché di solito i mondi divergenti non comunicano tra loro. Ma ha anche torto, perché su un altro piano di realtà esistono entrambi. Per quanto ho capito, le nostre amiche Guardiane dell’Ucronia hanno trovato un modo per viaggiare nel tempo e quindi tra linee temporali diverse. Loro stesse creano universi divergenti, come stiamo facendo noi adesso cercando di mettere insieme i Pooh.»

«Hmm» rifletté l’amico, la cui idea di fantascienza si riduceva ad alieni invasori e procaci fanciulle rapite da robot libidinosi «interessante tutto ciò, ma sembra anche terribilmente complicato…»

«Se ci pensi bene però risolve il paradosso del nonno.»

«Il paradosso di chi?»

«Immagina di viaggiare indietro nel tempo e uccidere tuo nonno prima che procrei. In questo modo tu non nasceresti e non potresti quindi costruire alcuna macchina del tempo e in definitiva non potresti uccidere tuo nonno!»

«Mi gira la testa.»

«Nel multiverso non esiste alcun paradosso: esistono due universi paralleli, in uno il nonno vive, nell’altro muore. In senso assoluto hanno lo stesso grado di realtà, ma relativamente a ciascun universo uno è reale e l’altro solo ipotetico.»

«Hmm sì, ha un senso. Quindi andando indietro nel tempo si può alterare anche il corso della Storia, creare universi alternativi molto diversi dal nostro.»

«Certamente! Immagina ad esempio che Cristoforo Colombo, interpretando male un gesto banale di un indigeno, si diriga più a sud di San Salvador e si scontri con l’impero azteco[1] o che Napoleone sia morto durante la Rivoluzione Francese[2]. Il nostro 1990 sarebbe molto diverso in quelle linee temporali…»

«O che il fascismo non ci sia mai stato in Italia, sì credo di capire.»

«C’è una ricca letteratura ucronica a giro, molta di ottima qualità.»

«Vabbè, lascio a te i libri, qui stiamo vivendo la realtà. Ma cosa diresti ai tuoi genitori quando partirai per un mondo alternativo?»

«Il problema non si pone, visto che grazie ai viaggi nel tempo posso tornare indietro addirittura prima della partenza, starò via solo un giorno o anche meno, anche dovessi passare tutta la vita in un altro mondo!»

«Bravo! Ma poi ti troverebbero invecchiato!»

«Era solo per dire. Comunque Linda mi parlava di un universo in cui si praticava una cura genetica contro l’invecchiamento basato sulla telomerasi…»

«Altra fantascienza? No basta eh.»

«No, questa è scienza. Non ti piacerebbe vivere per sempre?»

«Non siamo fatti per vivere in eterno» sentenziò l’investigatore, chiudendo il discorso.

18

La sala di registrazione puzzava di fumo di sigaretta e di materiale plastico. M. non ne aveva mai vista prima una. Roby, Red, Dody e Stefano erano puntuali: si incontrarono per la prima volta in quell’universo e si strinsero la mano amichevolmente. Per M. fu un momento emozionantissimo, gli venivano quasi le lacrime agli occhi: vedere i quattro Pooh riuniti lì davanti a lui, pronti a suonare le loro canzoni meravigliose, era un tuffo al cuore.

Il momento era storico. Il ragazzo volle immortalarlo con una foto Polaroid: lui insieme ai Pooh! Poi i Pooh da soli e infine ciascuno dietro al proprio strumento che si era portato da casa – a parte la batteria che si trovava già sul posto, a noleggio.

La prima canzone era stata scelta da M. per essere benaugurante e perché era carica di energia e amore per l’arte: Chi fermerà la musica. L’arrangiamento era tutto improvvisato, quindi suonava decisamente diversa da come la conosceva M., ma fu comunque fantastica.

«È davvero forte questo brano, ma davvero l’ho scritto io?» domandò Roby, che evidentemente in quell’universo non aveva ancora scritto tutti i brani che sarebbero stati dei Pooh, ma solo qualche abbozzo.

«Lei e Valerio Negrini» rispose M., che continuava a dare del “lei” ai suoi beniamini, ai suoi occhi tanto più adulti di lui. La registrazione del demo da sottoporre alle case discografiche andò avanti per tutto il pomeriggio, fino a sera tardi. Alla fine quella canzone, nelle sue innumerevoli versioni quasi identiche, stava quasi cominciando a dare sui nervi al ragazzo, che tuttavia rimase ad ascoltare fino alla fine, quando, ormai distrutti, i quattro riposero gli strumenti e se ne andarono con il master del brano.

«A questo punto il nostro compito è finito» commentò l’investigatore mentre si avviavano alla macchina, sotto una pioggerella fine e nebbiosa. «Pensi che riusciranno a trovare una casa discografica importante e che avranno lo stesso successo che hanno avuto nel tuo mondo?»

Il ragazzo alzò gli occhi al cielo, allargando le braccia.

«Più di così noi non possiamo fare, inoltre c’è anche quel misterioso aiuto delle nostre amiche viaggiatrici ucroniche… penso di sì, l’eredità dei Pooh è ottima, penso che la qualità verrà premiata. La porta è aperta, non ci resta che aspettare.»

19

Un pomeriggio estivo, caldo ma non afoso. Due amici stanno percorrendo in macchina l’autostrada verso sud. L’autoradio è accesa: “… trasmettiamo adesso il successo di quest’estate 1990 che, insieme a Notti magiche, ha accompagnato i mondiali di calcio nel nostro paese: Chi fermerà la musica dei Pooh. A seguire un’intervista con il gruppo-rivelazione di quest’anno. Quattro amici si sono incontrati per caso e hanno dato vita a un caso più unico che raro nella storia della musica italiana… un successo tanto rapido quanto strepitoso…”

«E così ce l’hai fatta» dice l’investigatore con un sorriso.

«Ce l’abbiamo fatta» risponde il ragazzo «senza il tuo aiuto non sarei andato da nessuna parte e a quest’ora avrei dimenticato molto, senza le mie cassette. Certo, mi fa un po’ strano sentire canzoni degli anni Settanta con arrangiamenti degli anni Novanta; questi sono brani “vecchi”, eppure… Si vede che doveva essere così.»

«Ma non dicevi che le possibilità sono infinite nell’ucronia?»

«Sì, ma forse c’è anche una sorta di “predestinazione” per certe persone, chissà. È tutto così complicato per me…»

La strada scorre veloce sotto il sole agostano, i due amici ascoltano la radio con interesse.

“… Roby Facchinetti ha un ringraziamento speciale da fare, sentiamo. ‘Queste meravigliose poesie che abbiamo messo in musica ci sono piovute dal cielo, vorremmo ringraziare Valerio Negrini per averle scritte per noi…’”

«Chissà che il vero Valerio in questo momento non stia ascoltando la radio, da qualche parte del mondo, se è ancora vivo: in uno degli universi divergenti lo è di sicuro, e se un giorno venisse a sapere di questa storia non vorrei che mi accusasse di avergli rubato i testi…»

«La vedo improbabile.»

«Quanto manca a Isernia?»

«Una cinquantina di chilometri. Sei impaziente di rivedere la tua fidanzata?»

Il ragazzo arrossì.

«E tu di vedere sua madre, Eleonora?»

«Ma dai!»

Scoppiarono a ridere tutti e due.

20

Linda è bellissima. Il ragazzo la guarda dalla testa ai piedi. I suoi occhi azzurri ricambiano lo sguardo con amore e freschezza adolescenziale. Lei gli prende la mano e lo conduce verso il portale temporale. Visiteranno insieme mondi fantastici, oltre ogni immaginazione. Vedranno magari dinosauri o città volanti – M. ha lasciato alla ragazza la scelta della loro prima destinazione, senza domandarle dove lo avrebbe condotto – e scopriranno le infinite possibilità della storia, in presenti alternativi simili a quello da cui proviene e altri diversissimi, migliori o peggiori, utopie o distopie, e saranno turisti con innumerevoli possibilità davanti a loro. Eleonora li accompagnerà e li presenterà agli altri Guardiani dell’Ucronia, e magari un giorno M. sarà uno di loro, un Guardiano. Nel cuore del ragazzo emergono le parole di Valerio Negrini, il grande poeta dei Pooh; un canto di gratitudine per il momento irripetibile che sta vivendo: “Grazie per la nostra età, per questi anni di velocità, per i satelliti e gli amori che son quelli di un milione di anni fa, e per questa nostra musica, per chi mi lascia respirare e ridere e piangere e vivere a modo mio”.

FINE

Firenze, 16 nevoso – 2 piovoso ’31 (5-21 gennaio 2023)


[1] Si veda Menzinger C., Il Colombo Divegente, Genova, Liberodiscrivere, 2007.

[2] Si veda Acciai Baggiani M., L’ultima regina d’Inghilterra, in “PASSPARnous” n. 49, gennaio-marzo 2017.

I Pooh divergenti (quarta parte)

Di Massimo Acciai Baggiani

L’autore del racconto, Massimo Acciai Baggiani – Foto di Italo Magnelli

[terza parte]

13

«Ehi, chi si rivede!» disse l’investigatore, venendo in soccorso dell’amico, sbiancato in volto e senza parole. «Ci stai per caso seguendo?»

Stavolta fu la ragazza a restare sorpresa all’apparire dell’uomo. Fu la donna che l’accompagnava a rispondere per lei.

«Con chi ho il piacere di parlare?» sibilò, ostile.

«Ci penso io» disse la ragazza facendosi avanti. «Io mi chiamo Linda e lei è Eleonora, mia madre.»

Linda! Pensò M. con immenso stupore nello scoprire che il nome che le aveva dato nella sua fantasia era proprio il suo. E per di più la madre si chiamava come un altro celebre personaggio poohico. L’amico, affatto sorpreso, presentò se stesso e il ragazzo, che continuava a guardare e tacere, come paralizzato, incapace di dire una sola parola.

«Dunque ci siamo visti a Bergamo e ci rivediamo qui nel bolognese…» continuò l’amico.

«… non è un caso» terminò la ragazza, con fare misterioso «ma ogni spiegazione verrà a suo tempo. In certe faccende il tempo è la chiave di tutto, non è vero?»

«Non siamo sicuri che ci piaccia essere seguito, anche se da due rappresentanti del gentil sesso, per di più carine come voi» disse l’amico galante. «Tu che ne dici?» chiese al ragazzo «Di qualcosa!»

«Ti aspetto al tavolo» rispose quest’ultimo, eclissandosi.

«Vada pure» disse la donna. «Qui siamo in un luogo pubblico e possiamo starci quanto ci pare, non vi stavamo seguendo, tranquilli, mia figlia ha uno strano senso dell’umorismo.»

«Già che ci siamo, volete unirvi a noi per cena?»

«Semmai unitevi voi a noi, visto che siamo già seduti.»

«Ah già, sì, vieni M.»

Il ragazzo si alzò malvolentieri.

«Dunque, da dove venite?» domandò l’investigatore poggiando il vassoio sul tavolo «Non sento alcun accento…»

«Mah, un po’ di qua, un po’ di là; abbiamo vissuto in posti diversi» disse Eleonora.

«E tempi diversi!» aggiunse enigmatica la ragazza, stappando una lattina di Coca-Cola.

«Che vuol dire?»

«Niente, niente… diciamo che siamo due viaggiatrici un po’ particolari.»

«Che coincidenza, pure noi!»

«Eh lo sappiamo.»

«Lo sapete? E come?»

«Beh, conoscete la teoria del multiverso?»

Quella parola fu come uno schiaffo per entrambi.

«Universi paralleli…»

«Universi ucronici per la precisione» disse Linda.

«Ehi M., hai sentito? Universi ucronici!»

Il ragazzo aveva sentito bene, ed era basito come l’amico.

«Facciamo parte di un corpo di viaggiatori interdimensionali chiamati Guardiani dell’Ucronia[1]» spiegò Eleonora «di norma combattiamo i raptor intelligenti che si insinuano nei vari universi ucronici per far danni, ma a volte aiutiamo i viaggiatori inconsapevoli come il qui presente M.»

«Questa poi! Come ci avete trovati?»

«È piuttosto complicato da spiegare, anche perché la comparsa di M. in questa linea temporale è collegata a un altro caso che stiamo seguendo da un po’ di tempo. È la classica storia lunga. Quel che conta è che possiamo rimandare M. nel suo mondo di provenienza, o fargli visitare anche altri universi dove i Pooh sono esistiti ma che sono comunque diversi da entrambi: ce n’è uno ad esempio in cui i Pooh hanno dato vita a una sorta di religione dove i testi delle canzoni sono venerati come brani del Vangelo, e la gente vive come dentro una canzone. Lo abbiamo visitato qualche giorno fa…»

«Dunque potete spostarvi a piacimento tra i mondi!?»

«Possiamo anche muoverci nel tempo, creando noi stessi mondi divergenti, a nostro piacimento.»

«Quindi chi ha creato questo mondo ucronico?» domandò l’investigatore, sempre più sorpreso.

«Non lo sappiamo ancora con sicurezza, ci stiamo lavorando. Come avrà capito, non siamo gli unici in grado di usare i Portali Temporali, anzi non li abbiamo nemmeno costruiti noi, anche se li usiamo molto spesso. Qui in Italia il più vicino è a Isernia, in Molise, in una grotta…»

«Mamma!» protestò la ragazza. «Non hanno bisogno di sapere proprio tutto, non sappiamo neanche se M. vuole tornare al suo mondo anziché vivere in questo in cui sta dando vita al suo gruppo musicale preferito!»

«Dunque sapete anche questo!»

«Sì, e molto altro.»

«A questo punto la domanda è: volete aiutarci oppure ostacolarci?»

«Diciamo che vi abbiamo già aiutato con Facchinetti e Canzian, in modi sottili che non vi stiamo a spiegare. Non vi pare strano che abbiano subito accettato di unirsi al vostro folle progetto?»

«In effetti sì.»

«Bene, a questo punto la scelta è di M. Cosa vuoi fare? Vuoi andare avanti o tornare indietro?»

L’animo del ragazzo era diviso. Cosa voleva davvero? Certo, in quel mondo avrebbe creato lui stesso la leggenda dei Pooh, ma l’esito era incerto e avrebbe dovuto faticare non poco. D’altra parte quell’avventura lo aveva ormai preso e non voleva rinunciare a Linda proprio adesso che si erano presentati, anche se fino a quel momento non le aveva ancora rivolto la parola.

In fondo non ci mise molto a prendere la decisione della sua vita.

«Voglio creare i Pooh “divergenti”» disse, guardando negli occhi la ragazza.

14

Dodi abitava in una villetta vicino a Casalecchio di Reno, dove si era trasferito dalla natia Bologna, proprio a due passi dall’omonimo fiume dove si riflettevano le stelle di una notte serena e calda di primavera. I due amici suonarono il campanello e furono accolti da odori mangerecci, segno che i proprietari si erano alzati da poco da tavola. Erano le otto passate.

Prima, all’autogrill, i quattro avevano discusso se presentarsi tutti insieme da Battaglia, poi avevano deciso di non invadergli la casa e comunque lo avrebbero aiutato in uno di quei modi misteriosi che non avevano spiegato bene, “a distanza”.

L’uomo che venne ad aprire la porta era vicino alla trentina ma appariva come un ragazzo; li accolse con un sorriso e li invitò a entrare. L’ingresso era piccolo ma accogliente, con molte chitarre appese al muro, di varie forme e colore.

La cassetta conteneva un solo brano scritto da Dodi; M. aveva scelto non il primo brano scritto per i Pooh nel ‘72, Io in una storia, ma un brano molto più recente che era rimasto nel cuore del ragazzo: Mai dire mai.

“Capita che tu stai male e dici ‘Non mi svegliate mai più’, riapri gli occhi e c’è tutto il sole, sai quel che vuoi e vuoi quello che sai…”

Quelle parole di Negrini lo avevano sempre incoraggiato nei momenti più bui, quando avrebbe voluto dormire “due o trecento anni, Giusto per capir di più e placar gli affanni”, per dirla con Battisti.

Dodi ascoltò con lo stesso attento stupore dei suoi colleghi musicisti, quindi chiese di riascoltare di nuovo il brano.

«Lo ha scritto lei, non è vero?» domandò l’investigatore.

«No, ma riconosco lo stile; è un brano molto bello, con un bel riff di chitarra elettrica, poi anche il testo non è affatto male.»

Certo, pensò M., non era mica detto che i Pooh di questa linea temporale – come l’aveva chiamata Linda – avessero scritto proprio tutti i brani che aveva scelto lui come compilation rappresentativa. Comunque lo stile non è acqua, e quello dei singoli componenti dei Pooh era perfettamente riconoscibile.

«Ci aiuterà dunque a mettere su la band?» domandò infine M., risvegliando il chitarrista dallo stato di trance in cui lo aveva gettato quella canzone.

«Sì, vi aiuterò. Sono proprio curioso di conoscere quegli altri tre. Loro hanno già accettato, giusto?»

«Ci manca solo Stefano D’Orazio, il batterista e l’altro autore dei testi. Lui lo incontreremo a Roma il prossimo fine settimana» rispose l’investigatore, prendendo la cassetta che Dodi gli stava restituendo.

«Sapete, vengo da una famiglia di musicisti» disse Dodi «quanti ricordi! Da ragazzino suonavo la fisarmonica per mia nonna malata e lì ho percepito chiaramente che volevo fare il musicista, anche se poi la vita…»

«“… Ti toglie tante idee, tanta forza…”» citò M., a memoria.

«Ma adesso mi avete ridato una speranza, grazie ragazzi.»

15

La settimana a scuola trascorse banale; dopo tante avventure era dura ritornare su quello stupido banco, aveva imparato cose molto più importanti in un fine settimana con l’amico. Fu interrogato a ragioneria («La ragioneria non è per i poeti!» gli aveva detto la prof, commentando il suo risultato scadente) e affrontò una verifica sui Promessi Sposi, quella andata bene.

La sera rileggeva i suoi appunti sui testi di Valerio e Stefano, domandandosi fino a che punto li ricordasse davvero a memoria. Si stava forse ingannando? Ci aveva messo del suo? Non poteva saperlo con certezza matematica.

Rivide l’amico il sabato successivo. Passò con la sua Renault nel primo pomeriggio e insieme imboccarono l’A1 verso la Capitale, per incontrare l’ultimo componente, Stefano D’Orazio, che aveva già passato la trentina: il manager dei Pooh.

Era forse il passaggio più delicato del piano: lui non aveva musiche composte per il gruppo ma solo testi. Nella cassetta avevano messo il primo testo scritto, Eleonora, mia madre, del ’75 – l’anno in cui era nato M. Era l’ultimo brano della compilation.

Se il fine settimana precedente avevano avuto la benedizione del bel tempo, quel sabato avevano incontrato un brutto temporale e scrosci d’acqua che rendevano difficoltosa la guida anche a un esperto come l’investigatore. Il viaggio fu lunghissimo, interminabile, e nessuno dei due aveva molta voglia di parlare. La temperatura era scesa notevolmente. Per il pernottamento avevano scelto un albergo a due stelle piuttosto periferico, dove l’amico investigatore aveva alloggiato tempo addietro durante un’indagine. Passarono di lì per lasciare i bagagli e dirigersi poi verso il punto d’incontro col batterista.

Linda ed Eleonora avevano preso anche loro una camera nello stesso albergo, ma stavolta i due amici non si sorpresero; erano stati anzi loro ad indicare quell’hotel. M. sentiva che, prima della conclusione di quella storia, madre e figlia avrebbero avuto una parte importante e sorprendente.

Stefano viveva in un appartamento a Torpignattara, quartiere periferico vicino alla via Casilina. Il palazzo era intonacato di rosa e c’erano molti negozi etnici nei dintorni. L’ascensore li portò rapidamente al quinto piano dove trovarono un portone socchiuso da cui spuntavano un paio di vivaci occhi castani sotto a un cesto di capelli ricci.

«Salve viaggiatori della notte» li salutò «che tempo da lupi, eh?»

Li fece sedere in salotto e offrì loro un bicchiere di vino rosso, rifiutato garbatamente da M., astemio.

«Siamo interessati alla sua carriera di scrittore e di regista» disse l’investigatore «ma ancora di più siamo interessati al campo, diciamo, musicale…»

Il sorriso sul volto dell’uomo si spense, come se fosse stato tirato fuori un argomento tabù.

«Forse avete sbagliato Stefano D’Orazio» disse «se cercavate quello dei Vernice…»

M. sorrise. Non conosceva l’omonimo a cui si riferiva il batterista, ma in quel mondo alternativo probabilmente c’erano altre differenze nella musica pop italiana oltre all’assenza dei Pooh, artisti nuovi che ne avevano preso il posto.

«No, nessun errore, sappiamo che lei è stato un musicista, ha suonato in vari gruppi prima di entrare nel mondo del cinema e della letteratura.»

Stefano li guardò sorpreso.

«Sì, è vero, quando facevo la comparsa nei film ho anche fatto lavorare molto le bacchette…»

«… e non solo quelle. Lei è anche bravo con le parole, e non intendo con i romanzi: lei ha scritto dei testi molto belli.»

«E lei come fa a saperlo?»

«Sappiamo molte cose» rispose l’investigatore, poi, rivolto a M. «Vuoi spiegargli la faccenda?»

M. ripeté per la quarta e ultima volta il copione ormai consolidato, ricevendo più o meno la stessa reazione di sorpresa e incredulità iniziale, seguita da estremo interesse. Stavolta l’attenzione si concentrò sul testo di Eleonora, mia madre.

«Ragazzi, non ci crederete, ma ho scritto un testo quasi identico e la cosa incredibile è che non l’ho mai mostrato a nessuno!»

«Lo sappiamo, lo sappiamo.»

«Quindi, se ho ben capito, nell’universo da dove dite di venire io scrivo testi in coppia con queste altre tre persone che io non conosco in questo universo…»

«No, solo io vengo da un altro universo divergente» precisò M. «Il mio amico ne sa quanto lei riguardo ai Pooh, sono stato io a convincerlo, come spero…»

«… di convincere me? Beh, sono impressionato ma vorrei ulteriori prove!»

M. fece mente locale, poi declamò: «“La ragazza con gli occhi di sole cominciava ogni giorno la vita su quel treno di folla e di fumo che dal mare portava in città…”»

«“… Tra i giornali malati di noia la guardavo guardare il mattino con la fronte sul vetro veloce che sfiorava le case del sud.”» continuò Stefano, emozionato. «È una delle mie poesie più belle, dite che c’è anche la musica?»

«Certamente, una melodia molto dolce» rispose M., rammaricandosi di non avere incluso anche quella canzone nella compilation di Tommaso «ma non mi chieda di cantarla che sono stonatissimo!»

«Bene, mi avete incuriosito. Quando possiamo incontrare quegli altri tre?»

M. e l’amico si guardarono in faccia, poi rispose M.: «Pensavamo il prossimo fine settimana, sabato 31, a Casalecchio di Reno, nel bolognese, se possibile.»

«Beh, non ho impegni non rimandabili.»

16

Il poker d’assi era al completo, i due amici potevano dirsi soddisfatti, ma il lavoro era tutt’altro che finito. La settimana seguente parve infinita a M., di nuovo a scuola tra partite doppie e parafrasi dantesche. Nessuno dei suoi compagni sospettava nulla, e ciò lo divertiva molto. Se avessero saputo…

Un giorno M., uscendo da scuola, vide Linda che lo aspettava all’angolo, davanti all’edicola. Pioveva anche quel primo pomeriggio, ma non così forte come durante la trasferta a Roma. Il ragazzo si avviò verso lo scooter, allucchettato poco distante dal portone dell’edificio, come per fuggire, tuttavia la ragazza lo arpionò prima che potesse raggiungerlo.

«Ehi, dove fuggi!? Non ti mangio mica! Ho bisogno di parlare con te a quattrocchi. Andiamo a mangiare qualcosa in quel bar, così magari smette di piovere.»

M. non trovò le parole per ribattere, così si lasciò trascinare dalla ragazza. Il bar era affollato di studenti della vicina università, ma riuscirono a trovare comunque un tavolo libero in mezzo al caos.

«Questa cosa che tu scappi e io ti inseguo è piuttosto ridicola, non trovi?» commentò la ragazza. M. annuì con la testa.

«Ho capito che tu con le ragazze non ci parli, ma non potresti fare un’eccezione per me? Voglio subito mettere in chiaro le cose: tu mi piaci e io piaccio a te, l’ho capito subito da come mi guardavi in quell’ostello a Bergamo. Non siamo più bambini, tu che problema hai?»

Il ragazzo non riusciva a guardarla negli occhi, fissi sul piatto dove spiccava un tramezzino ancora intonso.

«Capisco che metterti con me non sarebbe così facile, in fondo sono una Guardiana dell’Ucronia, come mia mamma, e oggi sono qui, domani là, ma potremo trovare una soluzione.»

M. alzò gli occhi.

«Davvero sei in grado di viaggiare nel tempo?» le domandò infine. Quelle parole, le prime che rivolgeva a una sua coetanea, gli erano costate uno sforzo titanico. Pure maggiore era la curiosità per quella facoltà che andava al di là di ogni sua fantasia, ed era invece realtà. Le credeva. Sì, stava dicendo la verità, non aveva alcun dubbio, e non solo per quelle curiose coincidenze. Qualcosa dentro di lui glielo diceva, ma un’altra parte del suo cervello richiedeva una prova.

«Puoi portarmi con te?» continuò a domandarle, senza darle il tempo di rispondere alla prima domanda.

«Eh, il portale temporale, come dicevamo, si trova in una grotta nascosta tra le montagne molisane. Potremmo farci una visitina, se il tuo amico è d’accordo, quando sarà finito il vostro progetto di mettere insieme i Pooh. A quel punto anche noi dovremo tornare nel nostro tempo…»

«Non è questo?»

«Per curiosità, sai in che anno sono nata?»

«Nel ’75?»

«No, sono una millennial, sono nata all’epoca della pandemia di Covid-19, nel 2020, tra trent’anni insomma.»

«Covid-19? Pandemia?»

«Lascia perdere, sono stati anni bui, tra la pandemia e la guerra…»

«Guerra?»

«Ho detto lascia perdere, non c’è bisogno di parlarne, non ora almeno. Ti piacerebbe però visitare un futuro ancora più remoto? Come sarà il mondo nel 2030 o nel 2035?»

«Scommetto che tu e tua madre lo sapete.»

Ora che si era sbloccato, M. non riusciva più a stare zitto (“c’è chi è stato zitto per tutta la vita, e poi quando parla chi lo ferma più” pensò tra sé, citando un testo di Valerio).

«Nel 2030 ci saranno ancora i Pooh?» domandò il ragazzo.

«Non tutti e non come gruppo; si scioglieranno nel 2016, dopo cinquant’anni di carriera. Questo nella linea temporale da cui provieni. In un’altra linea temporale hanno continuato a suonare anche dopo, ma senza Negrini e D’Orazio…»

«Sono morti? E quando?»

«Negrini nel 2013, D’Orazio invece… beh, la pandemia.»

«Ma avvertendoli prima…»

«Alla morte non si sfugge» replicò enigmatica Linda «sai la storia del soldato che corse tutta la notte verso la Capitale e qui vi trovò la Nera Signora che lo aspettava?»

«Sì, c’è anche una canzone, Samarcanda

«Ecco, puoi sfuggire una, due, tre volte, ma prima o poi ti trova. L’immortalità fisica e solo fantasia. Rimane l’immortalità data dalla fama, e in questo i nostri Pooh ci sono riusciti, gli hanno anche intitolato un lungomare. Nel 2035 avranno dei monumenti.»

«Mi parlavi di altri universi paralleli in cui i Pooh esistono, ma diversi da come li conosco io…»

«Sì, i Pooh divergenti sono infiniti. C’è perfino un universo con cinque “orsacchiotti”, dove Riccardo Fogli non se n’è mai andato, e un altro con Negrini al posto di D’Orazio. Hanno un repertorio un po’ diverso…»

«Mi piacerebbe sentirli!»

«Puoi.»

«Davvero?»

«Sì, e io posso?»

«Cosa?»

«Questo.» La ragazza si sporse verso di lui e lo baciò sulla bocca.

[continua]


[1] Si vedano i romanzi della serie di Jacopo Flammer scritti da Carlo Menzinger: Jacopo Flammer e il Popolo delle Amigdale (Liberodiscrivere, 2010), seguito da Jacopo Flammer nella terra dei suricati (Lulu, 2013).

I Pooh divergenti (terza parte)

Di Massimo Acciai Baggiani

L’autore del racconto, Massimo Acciai Baggiani – Foto di Italo Magnelli

[seconda parte]

9

«Non pensavo che sarebbe stato così facile» disse l’investigatore quella sera a cena, nel salone dell’ostello. M. si trovò felicemente d’accordo con l’amico.

Il ragazzo spiluzzicava dal suo piatto senza molto appetito. Quella sera c’era pesce in umido e verdura lessa, ma la mancanza di fame non era però dovuta all’umore, che anzi era ottimo. Il ragazzo era al settimo cielo per aver potuto conoscere di persona uno dei suoi eroi, anche se in un universo parallelo.

Tutto era andato bene, al di là delle più rosee previsioni. Roby li aveva ricevuti in casa sua, li aveva presentati alla famiglia e li aveva fatti sentire come a casa loro. Era davvero una grande persona Camillo “Roby” Facchinetti, molto alla mano, per nulla snob anche se in quell’universo era comunque un po’ famoso, sebbene non come voce e tastiera dei Pooh. Quei suoi occhi azzurri erano ipnotici, come il sorriso. Naturalmente aveva un’acconciatura dei capelli diversa da quella che M. ricordava, e pareva un po’ più invecchiato rispetto all’immagine che ricordava dal “suo” universo, anche se portava bene i suoi quarantacinque anni. La musica mantiene giovani, sia dentro che fuori, così aveva sempre pensato: i Pooh sarebbero stati eterni ragazzi anche a settant’anni suonati… immortali come le loro canzoni.

Roby li aveva ricevuti in salotto, aveva offerto loro una tisana e qualche biscotto, quindi aveva ascoltato con attenzione e un po’ di perplessità iniziale il discorso di M.

«Ci scusi per la piccola bugia che le abbiamo detto» aveva esordito, rigirandosi le mani nervosamente, incapace di fissarlo in volto. «Ma prima volevamo farle sentire qualcosa.»

L’amico investigatore aveva tirato fuori la cassetta e l’aveva data a Roby, il quale l’aveva guardata con aria interrogativa prima di infilarla nell’impianto stereo del salotto. Subito la stanza era stata inondata di musica meravigliosa nonostante la povertà degli arrangiamenti.

“Tu non lo sai come si sta… nell’infinita attesa… dentro una stanza vuota…”

M. alzò gli occhi sull’uomo cercando di decifrarne l’espressione enigmatica, sforzandosi di coglierne un segnale di familiarità, come se potesse riconoscere la melodia di È bello riaverti, una delle canzoni “minori” dei Pooh, ma non meno belle.

“Tu, porti luce ancora, dove più non c’era!!!”

E via l’assolo di chitarra elettrica, improvvisata da Tommaso in base alle indicazioni imprecise di M. Roby ascoltava rapito, senza dire una parola. I suoi occhi intensi erano fissi come biglie. Quando il nastro si interruppe, segnando la fine del lato A, i due amici fissavano Roby sporgendosi in avanti, quasi sul punto di cadere dal divano. Gli attimi di silenzio che seguirono sembrarono lunghi come eternità.

«Ragazzi, dove avete preso queste canzoni?» aveva infine chiesto Roby, palesemente impressionato, quasi spaventato.

«Se glielo dicessimo non ci crederebbe…» aveva azzardato M., intimorito.

L’uomo si era alzato dal divano e si era seduto a un vecchio pianoforte verticale nell’angolo del salotto, vicino alla finestra da cui si vedeva uno spicchio di cielo azzurro primaverile, tagliato dal ramo di un tiglio. Roby era rimasto qualche attimo come sospeso, poi aveva eseguito una versione strumentale di Tanta voglia di lei.

M. e l’amico si erano guardati con perplessità, domandandosi dove voleva andare a parere. Avevano ascoltato tutta l’esecuzione, quindi l’applauso era partito spontaneo.

«Questa canzone l’ho scritta io!» aveva detto Roby «La musica almeno. Il testo era diverso… comunque non ha importanza, perché, a dire la verità, non l’avevo mai fatta sentire a nessuno. Finora. Ditemi la verità, ragazzi: chi siete?»

A quel punto il piano era saltato. M., nonostante i calci nelle caviglie dell’amico, vuotò il sacco. Raccontò tutto. Mentre parlava, si rendeva conto da solo di quanto incredibili dovevano suonare le sue parole alle orecchie del musicista, il quale aveva ascoltato con crescente meraviglia, ma senza l’incredulità che avevano temuto i due amici. Cosa stava pensando? Cosa penserebbe un musicista che sente la propria opera, tenuta fino al quel momento segreta, cantata da qualcun altro? M. non ne aveva proprio idea.

«Vedete» aveva infine detto Roby, alzandosi dallo sgabello del piano e avvicinandosi alla finestra per guardare oltre. «La musica scorre nelle vene della mia famiglia, ho cominciato prestissimo a suonare e a comporre, ero una sorta di bambino prodigio. Negli anni Cinquanta e Sessanta ho suonato in molti gruppi. Quanti ricordi! Eravamo ragazzi, pieni di sogni che venivano da oltremare. È stato un periodo magico, irripetibile, con grandi gruppi inglesi e italiani. Ma eravamo ragazzi. Poi si cresce e se non si sfonda con la musica bisogna pur inventarsi un lavoro per mettere da mangiare in tavola. Io, come tanti, non ce l’ho fatta, e ora mi venite a raccontare che in un fantomatico universo divergente io ho avuto successo con un gruppo che adesso, se non ho capito male, vorreste formare anche in questo mondo?»

«Sì, la vostra musica è troppo preziosa per non tentare di preservarla» aveva risposto il ragazzo, facendosi coraggio. «Può avere lo stesso successo che ha avuto nel mio mondo, forse addirittura di più. È grande musica, con grandi testi. Io questi testi li conosco a memoria, ne ho trascritti molti qui.»

Aveva mostrato un quadernone e lo aveva aperto a caso per mostrare gli appunti scritti in una calligrafia quasi illeggibile.

«Posso ascoltare anche il lato B?» aveva domandato Roby.

«Certamente.»

Quando era partito il ritornello di Piccola Katy M. aveva notato che le mani dell’uomo tremavano per l’emozione e gli occhi gelidi si erano inumiditi. Era la storia che aveva ispirato il suo romanzo Katy per sempre, compreso il nome della giovane protagonista: M. ne aveva acquistata una copia in libreria e lo aveva già letto prima di quell’incontro. Parlava in effetti di una ragazzina sedicenne che scappava di casa e delle sue avventure e disavventure nel mondo spietato degli adulti. Una Katy che non era tornata indietro e che aveva lasciato dietro di sé solo il suo diario che riempiva sempre “solo con ciò che faceva piacere a chi di notte lo andava a vedere”. Una Katy “ucronica”, tanto per restare in tema.

«Questo testo, come buona parte degli altri, lo ha scritto il suo amico Valerio Negrini» era intervenuto l’investigatore, fino a quel momento rimasto in silenzio.

«Ma io questo Valerio non so chi sia…» aveva obiettato Roby.

«Certo, in questo universo è scomparso misteriosamente prima che poteste incontrarvi.»

L’uomo tornò al pianoforte e accennò il ritornello di Alessandra, sorridendo come un bambino.

«Tutto questo è… incredibile! Pazzesco!»

«Lo sappiamo, e se non ci crede e ci prende per pazzi possiamo capire, toglieremo subito il disturbo» aveva detto M. alzandosi e facendo un cenno all’amico.

«No, aspettate. Sarò matto anch’io, ma vi credo. Non vedo in quale altro modo potreste essere venuti a conoscenza di queste melodie, le ho tenute sempre nascoste anche alla mia famiglia… Ad ogni modo sono interessato a conoscere gli altri… come avete detto che si chiama il gruppo?»

«Pooh!» risposero in coro i due amici fiorentini.

«Come truffa non avrebbe senso, poi su una cosa avete senza dubbio ragione: la musica ce l’ho nel sangue e non mi dispiacerebbe riprovarci, anche se non sono più un giovanotto. Cosa pensavate di fare? Ah, posso tenermi la cassetta?»

«Certo, ne abbiamo una copia. Pensavamo di darci appuntamento a Bologna con Dodi: sarebbe bello far rinascere i Pooh proprio in quella città, dove sono nati nel mio mondo» aveva risposto M., lanciando un’occhiata d’intesa all’amico.

«Adesso chi andrete a raccontare questa storia pazzesca?» aveva domandato il musicista con un sorriso divertito.

«Visto che siamo qua al nord, faremo un salto a Treviso per andare a parlare con Red Canzian.»

La conversazione, come la ricordava M., era stata più o meno questa. Roby li aveva accompagnati alla porta e si era ancora una volta dichiarato interessato al progetto “Réunion dei Pooh”, quindi erano tornati in albergo giusto per l’ora di cena. Il cielo era già scuro, a marzo faceva ancora buio presto, ma una luce brillava nel cuore del ragazzo, sempre più coinvolto in quella fantastica avventura. Il primo passo era stato fatto ed era stato, appunto più facile del previsto.

«Pensi che ci abbia creduto davvero e che non abbia piuttosto assecondato dei pazzi?» insinuò l’amico tagliando il suo pesce nel piatto.

«Non credo, il suo stupore nell’ascoltare il nastro era sincero. Domani proviamo con Red: se abbiamo la stessa fortuna anche con lui siamo a cavallo.»

10

Finito di mangiare, M. notò quella strana ragazza seduta a un tavolo poco distante. Era in compagnia di una donna sulla quarantina, probabilmente sua madre. Nella sua mente di ragazzo e fan dei Pooh le aveva già dato un nome: Linda.

“Linda, acqua di sorgente… Linda calda e innocente…”

Il ragazzo non sapeva se per “Linda” sarebbe stata la “prima volta”, come nella canzone omonima, ma di certo per lui sì, e aveva sempre sognato che la prima volta sarebbe stata per entrambi. Un pensiero strano lo fece arrossire: chissà con una vergine… ma poi pensò che se ci fosse stato del sangue sarebbe svenuto, e il pensiero lo fece vergognare. Nelle canzoni dei Pooh dei primi anni Settanta si parlava spesso di sesso e di prime volte, seppur con molto garbo e poesia; d’altra parte gli stessi Pooh erano dei ragazzi che parlavano ad adolescenti non molto più giovani di loro. Il successo dei Pooh era dovuto, secondo lui, al fatto che molti potevano identificarsi nelle loro canzoni che parlavano di gente comune.

Ad ogni modo M. sapeva apprezzare anche l’amore platonico, l’unico d’altronde che aveva sperimentato nei suoi quindici anni compiuti da poco. Non che volesse restare vergine in eterno, il sesso lo incuriosiva e lo eccitava, ma…

Come indovinando i suoi pensieri, “Linda” si voltò verso di lui e gli fece una linguaccia. M. si sentì di nuovo sprofondare. Fece per uscire dalla sala e andò a sbattere contro un signore con tale violenza che per poco non lo fece cadere. Si scusò e nel mentre si sentì battere una mano sulla spalla. Pensò fosse l’amico, invece si voltò e vide… lei. Gli sorrideva.

«Attento che cadi» gli disse amichevole.

M. non rispose, voleva solo fuggire. Ancora una volta non era in grado di dire nemmeno una parola a una ragazza che gli piaceva. Si girò, pronto alla fuga.

«Aspetta» disse la ragazza «come ti chiami?»

Il ragazzo fuggì veloce su per le scale e si chiuse nella camera senza dire nulla. Sì, si era comportato da vero cafone, ma era stato più forte di lui. Si buttò sul letto e si mise ad ascoltare in cuffia una cassetta, una compilation che aveva fatto di recente pescando da vari artisti italiani e stranieri del decennio appena concluso. Così lo trovò l’amico, al quale non osò raccontare la sua avventura. Fu lui a farne cenno.

«Ho visto che hai fatto colpo!» disse sornione.

«Non ne parliamo, non vale la pena» disse il ragazzo, intendendo l’esatto contrario. Parlarne con un amico più grande ed esperto lo avrebbe potuto aiutare. Lui aveva già avuto varie ragazze e, anche se al momento era single, di esperienze ne aveva da raccontare.

«Parliamone invece. È stata una giornata densa, e siamo appena agli inizi. Va bene mettere insieme il tuo complesso, ma bisogna anche godersi la vita. Alla tua età poi si pensa costantemente alle ragazze, lo so, ci sono passato anch’io prima di te. Cosa direbbero al riguardo i tuoi adorati Pooh?»

M. pensò che avevano tanto da dire, e spesso avevano trovato le parole giuste per farlo, ma la teoria nel suo caso era molto distante dalla pratica. Avrebbe mai superato quel suo limite? Il ragazzo se l’era chiesto spesso, cercando conforto nella musica e nella letteratura. Quante volte si era autogiustificato mascherando la sua timidezza per romanticismo, ingannando se stesso.

«In fondo» continuò l’amico «è un essere umano come te, con le sue insicurezze e difese. Non devi metterla su un piedistallo irraggiungibile. La prossima volta voglio che le parli e ti presenti come si deve, anziché fuggire, d’accordo? Ce la puoi fare.»

«Va bene, ma ora dormiamo. Domani ci aspetta un’altra giornata campale.»

11

Il ragazzo non era mai stato a Treviso, come non era mai stato a Bergamo, ma non era interessato al turismo. Mancava il tempo materiale per quello. Il mattino successivo si alzarono di buon’ora per essere a casa di Canzian nel primo pomeriggio. Si misero in macchina dopo un’abbondante colazione in ostello – M. si diede un’occhiata intorno per vedere se c’era anche “Linda”, ma non la vide – e in poche ore raggiunsero la città veneta, passando per il Lago di Garda. L’autoradio trasmetteva vecchie canzoni nostalgiche, miste a pubblicità varie e notiziari; Nuovo cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore era il miglior film italiano agli Oscar, il miglior film americano era A spasso con Daisy.

Bruno Canzian viveva in periferia, in una villetta elegante. Nel giardino facevano mostra di sé alcuni bonsai ben curati. Ad aprire la porta fu una donna sulla trentina che a M. parve molto bella. Li fece accomodare in giardino, sotto ad un gazebo, e offrì loro tè verde e biscotti nell’attesa del marito, il quale comparve dopo pochi minuti. Sulle prime il ragazzo non lo riconobbe, con i capelli corti e la giacca e cravatta, poi il volto sorridente e “pieno” gli fece tornare in mente l’ultima volta che lo aveva visto, nel suo mondo, ad un concerto al Teatro Tenda di Firenze, con il suo basso fretless imbracciato come un’arma da cui scaturivano note anziché proiettili.

Con lui avevano usato una scusa diversa da quella dell’intervista per il giornalino. Si erano presentati al telefono come galleristi interessati ai suoi quadri, di cui avevano intravisto diversi esemplari in casa. Anche con lui M. finì per raccontare l’incredibile verità, dopo aver fatto ascoltare un brano della famosa cassetta. Si trattava di Il suo tempo e noi: il primo brano scritto, insieme a Roby, per l’album Rotolando respirando del 1977. Come già Roby, anche Red ascoltò con interesse e perplessità il brano.

«Aspettatemi un attimo» disse alla fine della canzone. Tornò dopo pochi attimi con a tracolla una chitarra acustica.

«Potete rifarmi sentire questo brano?» chiese, sedendosi davanti a M., il quale fece partire di nuovo la cassetta nel suo stereo portatile, a pile.

Red cominciò ad accompagnare la canzone con la chitarra, visibilmente emozionato.

«Ho scritto alcuni passaggi di questa canzone» disse infine «ma è diversa da come l’avevo immaginata io. Simile ma diversa».

«Perché l’ha scritta insieme a Roby Facchinetti» chiarì il ragazzo. «Ieri siamo stati appunto da lui, ha detto che vorrebbe conoscerla insieme agli altri componenti dei Pooh».

L’uomo guardò prima l’uno e poi l’altro.

«Sapete vero che questa è una storia incredibile? Universi paralleli, canzoni “fantasma”, è roba paranormale!»

«Lo sappiamo» intervenne l’investigatore. «Ci ho messo anch’io un po’ per accettare la cosa, ma dopo l’incontro di ieri col signor Facchinetti non ho più dubbi».

«Io invece ne ho molti, ma sono curioso di conoscere questi signori. Sapete, negli anni Sessanta e Settanta ho suonato in diversi gruppi e non credo di aver perso il tocco, anche se per vivere faccio altro. Ogni tanto suono il basso in qualche festa con degli amici. Un’occasione per fare musica è sempre una buona occasione, perché no?»

L’uomo porse la mano ai due amici e, dopo averla stretta all’uno e poi all’altro, riprese in mano la chitarra e accennò un altro brano che M. non tardò a riconoscere. Era Amore e dintorni, del 1986. Per un caso c’era anche quella nella cassetta: M. la cercò e gliela fece ascoltare con le parole di Stefano D’Orazio.

«Lui c’è ancora» disse M. «vive a Roma e sarà l’ultimo che andremo a trovare».

«Curioso, io non gli avevo dato un titolo e nemmeno le parole, mi fa una certa impressione sentirla cantata… ma da dove diavolo siete spuntati voi due?! Volete farmi ammattire?»

«Assolutamente no, se vuole ce ne andiamo» disse M., recitando la solita parte già provata con Roby, pur sicuro che li avrebbe trattenuti.

12

«E anche questa è fatta» disse l’amico investigatore mentre guidavano in autostrada verso Bologna, dove avevano appuntamento dopo cena col signor Donato Battaglia. Con lui avevano giocato la carta dell’intervista per una piccola rivista di automobilismo, e avevano giocato bene dal momento che “Dodi” gli aveva dato appuntamento a casa sua dopo cena.

«Già, anche questa è fatta, come disse quello che ammazzò la moglie!» gli fece eco scherzando il ragazzo.

«Ci fermiamo a cenare con un panino all’autogrill?» propose il guidatore.

«Perché no? Comincio a sentire un certo languorino…»

Il cielo si era colorato di un bellissimo tramonto che ancora indugiava sullo specchietto retrovisore della Renault, in un riflesso magico e un po’ inquietante. Presto sarebbe stato di nuovo buio. Si fermarono all’autogrill Cantagallo, vicino a Casalecchio di Reno, dove abitava Dodi. Si trattava di un bell’esempio di “ristoro a ponte”, costruito appunto come un cavalcavia sull’autostrada, accessibile da entrambi i lati, inaugurato nel 1961. Qui c’era la solita calca di automobilisti e camionisti. Decisero di prendere un hamburger con patatine. Quando si sedettero al tavolo per poco a M. cadde il vassoio dalle mani.

“Linda” era lì, al tavolo accanto. Stava parlando con la donna dell’ultima volta, e lo stava guardando. Non sembrava affatto sorpresa, almeno non quanto lui a vederla lì, di nuovo. Chi sei, misteriosa fanciulla? Si domandò. Chi sei?

«Ciao!» lo salutò la ragazza «Hai intenzione di fuggire anche stavolta?» gli chiese ironica.

[continua]

I Pooh divergenti (seconda parte)

Di Massimo Acciai Baggiani

L’autore del racconto, Massimo Acciai Baggiani – Foto di Italo Magnelli

[prima parte]

5

Nei giorni successivi M. e l’amico perfezionarono il loro piano. Quando furono pronti entrarono in azione.

«Ci serve un musicista» aveva detto M., il quale aveva preso qualche lezione di chitarra in passato, ma aveva presto rinunciato perché era troppo doloroso per i polpastrelli, inoltre era stonatissimo.

«Conosco la persona adatta» aveva risposto l’amico, con un mezzo sorriso.

«Deve essere fidato, non vorrei che ci rubasse le canzoni. È un patrimonio importante…»

«Non ti preoccupare, ad ogni modo ce ne servono poche per il momento.»

L’incontro con il musicista, tale Tommaso, avvenne qualche giorno dopo in una sala prove di proprietà dello stesso chitarrista, nel quartiere di Rifredi, in una corte oscura e umida. Tommaso era un giovane sui venticinque anni, con un pizzetto e lunghi capelli ricci da musicista. La storia che si erano inventati era strana ma aveva funzionato: M. si era spacciato per una sorta di medium che aveva avuto le canzoni dall’Aldilà, in una visione. Il chitarrista lo aveva guardato come niente fosse, evidentemente era abituato a frequentare gente strana, a ogni modo accettò con un prezzo di favore vista l’amicizia con l’investigatore. M. si vergognava come un ladro a “stonare” le canzoni dei Pooh, era veramente uno strazio, ma era l’unico modo per tentare di fare capire all’orecchio esperto di Tommaso come poteva suonare la melodia di cui lui cercava le note sulla sua chitarra acustica.

«Ehi, non è niente male ‘sta roba!» aveva commentato Tommaso, ricevuto l’ok da M. per la sua versione acustica di Tanta voglia di lei. «Ora la registriamo.»

Tommaso era un polistrumentista: registrò il demo con la chitarra, quindi aggiunse la tastiera e un arrangiamento rudimentale. M. era galvanizzato, dopo tutto – aveva pensato – le canzoni non erano perdute, si era ricordato il testo parola per parola, era uno dei suoi brani preferiti. Quando intonò Pensiero Tommaso era estasiato, invece l’investigatore non pareva molto impressionato. Dopo un paio di giorni la cassetta era pronta: conteneva i vecchi successi degli anni Settanta, da Pierre a Dammi solo un minuto, eccetera. Alla fine, M. volle includere anche Uomini soli, per chiudere in bellezza.

M. e Tommaso erano molto soddisfatti.

«Tanta roba» continuava a ripetere il chitarrista «roba buona». M. lo guardava geloso, sperando che Tommaso non facesse brutti scherzi.

«Adesso abbiamo i demo» disse l’amico «non ci resta che andare a far visita al buon Facchinetti».

6

Approfittarono del primo fine settimana libero – intanto M. era dovuto tornare sui banchi, essendo finita l’occupazione – per fare il primo viaggio a Bergamo. M. attinse ai suoi risparmi della paghetta dei suoi genitori, mentre l’amico lo aiutò per l’albergo. Partirono sabato pomeriggio, dopo la scuola. M. aveva con sé il suo fido zaino dove aveva infilato quelle poche cose che gli servivano per passare la notte fuori. L’amico investigatore passò a prendere M. con la sua Renault 5 rossa alle tre in punto e insieme si diressero verso nord, in autostrada.

Era una bella giornata primaverile, nel cielo poche nubi, non faceva affatto freddo. L’autoradio trasmetteva un vecchio successo di Lucio Battisti.

«Ripassiamo il piano» aveva detto a un certo punto l’amico investigatore. «Come d’accordo, ho preso appuntamento col signor Facchinetti con la scusa di un’intervista sul cinema, per il giornalino scolastico. Io sono tuo fratello maggiore. Ci ha creduto. Come ti chiami?»

«Valerio, naturalmente. Diamo a Cesare quel che è di Cesare.»

«Quando abbiamo poi messo piede in casa sua verrà la parte più difficile: convincerlo. Qui devi essere bravo tu a parlare.»

«Sì, appena si renderà conto che quella dell’intervista era una scusa potrebbe buttarci fuori di casa, forse anche denunciarci. Ma non credo lo farà, non dopo aver ascoltato il nastro. Anche se nella vita fa altro, è pur sempre un musicista: un grande musicista. Riconoscerà il suo stile, forse alcune di quelle melodie le aveva già composte per conto suo, senza diffonderle.»

«Probabile. Ma rischiamo grosso.»

«Chi non risica non rosica. Comunque la musica ce l’hanno nel sangue, la nostra proposta piacerà sicuramente.»

Seguirono alcuni minuti di silenzio, riempito dalla voce di Battisti: «Acqua azzurraaaa… acqua chiaraaaa».

«Tanto vale raccontargli la verità» disse a un certo punto il ragazzo. «Non credi?»

«Pessima idea, ti prenderebbe per pazzo. Già io faccio fatica a credere a questa storia, e ti conosco da anni. Come reagirebbe un perfetto sconosciuto se gli dici che in un universo parallelo è un cantante famoso che ha venduto decine di milioni di dischi?»

«Già, non è il caso. È più semplice seguire la tua idea.»

«Atteniamoci al piano, ok?»

Il ragazzo annuì, gli occhi fissi sull’autostrada che filava veloce.

Altri minuti di silenzio. Battisti aveva lasciato il posto al bollettino del traffico.

«Ma perché hanno scelto questo nome?» domandò l’investigatore.

«Chi?»

«I Pooh, chi altri?»

«È stata la segretaria della Vedette, la loro prima casa discografica. Aliki Andris era fan dell’orsacchiotto della Disney. Un nome breve e facile da ricordare, che li ha poi proiettati nella leggenda.»

«Ma se sono così bravi, come mai non hanno avuto successo come solisti o con altri gruppi?»

«Venivano tutti da altri gruppi, infatti, quando hanno formato i Pooh. Red ad esempio era la voce e la chitarra dei Capsicum Red, un gruppo progressive attivo fino al ’73, quando è passato appunto ai Pooh. Avevano fatto anche un album molto interessante… Comunque, tra i Pooh si è creata una sinergia, una “magia” se vuoi, che va al di là dei contributi dei singoli componenti. I lavori solisti di Facchinetti, Red e Dody – sì, hanno fatto anche album solisti – non sono a mio parere al livello dei lavori in cui hanno lavorato insieme, pur essendo opere più che dignitose. Vedi, è difficile da spiegare…»

«Sì sì, va bene. Siamo quasi arrivati. Passiamo prima in albergo a lasciare i bagagli e darci una rinfrescata.»

7

L’ostello si trovava nella parte alta e più suggestiva della città: un edificio anonimo ma con servizi in camera e costi contenuti. I due amici avevano preso una stanza doppia, per risparmiare. M. era abituato a dividere la stanza col fratello e, durante le gite scolastiche, con altre persone. Ai genitori aveva raccontato una balla riguardo a quel viaggio, e un po’ si sentiva in colpa, ma cos’altro poteva fare?

Viaggiare lo metteva sempre di buon umore. Sentire la strada che va, dormire in un letto diverso, aprire la mattina la finestra su un diverso paesaggio, ascoltare i suoni di altre città e respirarne gli odori. Molti dei suoi racconti, pensò, avevano a che fare con viaggi, in questo mondo reale ma più spesso in mondi fantastici partoriti dalla sua fantasia. M. era un creatore di mondi e gli piaceva costruirli fino ai più piccoli dettagli: adesso che si era trovato in una storia che poteva essere uno dei suoi racconti “ai confini della realtà”. Prese mentalmente nota di scriverci qualcosa sopra, non appena quella storia fosse finita. Sperò in un lieto fine, per quanto azzardato.

L’auto si infilò nel parcheggio dell’ostello, semideserto, quindi i due amici si incamminarono verso la reception con i loro zaini sulle spalle. Dietro il bancone c’era una donna sulla trentina, bionda e con occhi verdi. Sulla targhetta appuntata sul seno si leggeva “Benedetta”. Consegnò loro le chiavi della 414, al quarto piano, e augurò “buon soggiorno” con voce professionale, dopo aver comunicato l’orario della cena.

«Ce la sbrigheremo in un paio d’ore» disse l’amico più grande. «Un lavoretto da niente» scherzò dando una pacca sulle spalle del ragazzo. La stanza era spartana, ma per una notte andava bene. M. si augurò che l’amico non russasse.

L’appuntamento con Facchinetti era alle 17 a casa sua. Avevano acquistato una mappa della città e l’amico investigatore aveva già studiato il percorso.

«Ho letto da qualche parte che in America stanno lavorando a un congegno che sarà presto disponibile in tutte le auto e che indicherà la strada da seguire basandosi sul segnale GPS, insomma un navigatore elettronico…»

«Eh, e poi sono io che legge troppa fantascienza!» lo interruppe M.

«Vado a prendere un caffè al bar, vieni anche tu?»

«No grazie, adesso non mi va. Vado a fare un giro.»

L’ostello era labirintico, enorme, smisurato, vagamente escheriano e pieno d’ombre. Il ragazzo girellò un po’ nel silenzio, quindi si ritrovò di nuovo nella hall. Qui si buttò su uno dei divani. Solo allora notò di non essere solo.

8

La ragazza poteva avere più o meno la sua età. Era molto carina. Aveva capelli lunghi, neri come l’inchiostro, che teneva sciolti sulle spalle, e occhi azzurri. Il viso era un ovale perfetto. M. scoprì i propri limiti di scrittore nel tentare di descriverla, come se stesse buttando giù un racconto. D’altronde i suoi personaggi non erano ben caratterizzati fisicamente, erano piuttosto bidimensionali. Lei invece era lì, “pur presente e viva” con i suoi “tratti dolci e gli occhi d’acqua pura” (come avrebbe detto Valerio, bravissimo, lui, nei suoi ritratti femminili). Il ragazzo restò a fissarla, incapace di distogliere lo sguardo, finché lei non si voltò.

«Fai una foto, durerà più a lungo!» disse ridendo.

M. si sentì sprofondare dalla vergogna. Arrossì fino alle orecchie, non sapendo più dove guardare. Borbottò alcune scuse. La ragazza si alzò e si avviò verso l’ascensore.

«Beh ciao» disse prima di sparire.

Il ragazzo rimase basito.

M. aveva scoperto da poco l’amore: quel sentimento adolescenziale, così fresco e genuino da far girare la testa come vino forte, così nuovo e grande che poteva spaventare. Il ragazzo infatti non osava parlare all’altro sesso, era timido in modo patologico. Soffriva e si crogiolava nella sua solitudine in parte voluta. Non a caso Uomini soli gli era piaciuta al primo ascolto. Spesso le canzoni dei Pooh lo consolavano, gli davano forza, lo tiravano su quando era triste e lo facevano cantare (anche se era stonato) quando era allegro. Erano la sua Ars amatoria, il suo manuale d’amore, un’antologia di tutti i possibili casi che possono capitare a due persone nel vasto campo dei sentimenti per lui in buona parte sconosciuti. Tuttavia credeva all’amore a prima vista e soprattutto credeva alle favole.

Avrebbe voluto correrle dietro, dirle qualcosa di arguto e di intelligente per non farla andare via, ma era troppo tardi e comunque non gli veniva in mente nulla. Come al solito, quando si trattava di ragazze perdeva la parola. Tornò sconsolato al divano, aspettando che scendesse l’amico per andare all’appuntamento, ormai vicino. Si sentiva molto nervoso e recitò tra sé un mantra rassicurante.

[continua]

I Pooh divergenti (prima parte)

Di Massimo Acciai Baggiani

L’autore del racconto, Massimo Acciai Baggiani – Foto di Italo Magnelli

Dove sono gli altri tre?

Stefano D’Orazio

Se non fossi io, questo io di adesso,
io con la mia faccia,
me lo chiedo spesso sai cosa sarei,
il meccanico che ha l’anima
molto più pulita delle mani
o il furbo che non se le sporca mai.

Valerio Negrini

A SDO e VN

1

Tutto ebbe inizio con una sparizione, la sera del 2 marzo 1990. M. accese il suo pc e andò allo scaffale dove custodiva le sue cassette di musica. Aveva già in mente cosa mettere su mentre avrebbe scritto il racconto che aveva in testa. La mano sicura si mosse verso lo spazio occupato dagli album dei Pooh… e si fermò confusa. Per un attimo pensò che qualcuno fosse entrato in camera sua e avesse spostato le cassette, ma scartò subito l’ipotesi: nessuno avrebbe osato. Da quando aveva compiuto quattordici anni aveva sempre difeso la sua privacy strenuamente, non avrebbe comunque avuto senso che i suoi genitori fossero entrati in camera sua – zona off limits per chiunque – e avessero messo le mani sui suoi tesori.

Guardò meglio. Le cassette erano disposte in rigoroso ordine alfabetico, per cantante o gruppo, e per ordine cronologico all’interno di ogni artista. I Pooh non c’erano. Mancavano tutte le loro cassette, da Per quelli come noi a Oasi. Si passava direttamente dalle Orme ai Queen.

Scrivere con un sottofondo musicale era un’abitudine che si portava avanti da quando aveva deciso che avrebbe fatto lo scrittore, ossia da quando era bambino. Ascoltava un po’ di tutto, ma amava soprattutto la musica melodica italiana, e i Pooh in particolare. Era un vero esperto. Aveva ereditato questa passione da sua madre, fan della prima ora dell’ormai storico gruppo. Si poteva dire che M. era cresciuto con i Pooh, con le loro canzoni meravigliose, dal periodo beat a quello progressive, fino a quello elettronico. Conosceva a memoria tutte le loro canzoni, compresa quella nuovissima che avevano portato a Sanremo quell’anno: i quattro avevano spiazzato tutti portando un testo sulla solitudine anziché una canzone d’amore. Erano i favoriti. La canzone in gara, Uomini soli, era bellissima e lo aveva rapito fin dal primo ascolto, la prima serata del Festival.

Già, il Festival. Non vedeva l’ora che arrivasse il giorno dopo, per la finale. Quel pensiero lo distolse per un po’ dal mistero delle cassette sparite, ma solo per poco. Non sapendo che altro fare, andò in cucina e chiese a sua madre, la quale – come immaginava – cascò dalle nuvole.

«Va’ a vedere che sono entrati i ladri e hanno portato via proprio le cassette dei Pooh!» disse, buttandosi su una sedia.

Sua madre lo guardò stranita.

«Chi sono questi Pooh? Un gruppo nuovo?» disse la donna, mentre stirava.

M. ebbe un sussulto.

«Ah ah, molto divertente.»

«Comunque io non ho toccato niente in camera tua» disse la donna, ma M. stava già uscendo dalla stanza. Quella faccenda lo aveva sconvolto più di quanto immaginava. Gli ci erano voluti anni per completare l’opera omnia degli album dei Pooh: ce li aveva tutti, rigorosamente in cassette – non aveva mai posseduto un giradischi né un lettore di cd, quella strana innovazione musicale non lo aveva mai convinto, sarebbe passata presto, pensava. Aveva cura di quegli oggetti come veri e propri tesori: si preoccupava di riavvolgere il nastro ad ogni uso (aveva saputo che così duravano più a lungo) e tenere lontana la polvere e l’entropia, maledizione di quei supporti così delicati. Che tristezza il pensiero che un giorno quei nastri, nonostante le sue cure maniacali, si sarebbero consumati al punto da essere inascoltabili.

Che fine avevano fatto le cassette? Poteva essere uno spunto per uno dei suoi racconti, ma ormai l’ispirazione per scrivere era passata. Senza quella musica non se la sentiva di mettersi al pc, così accese la tv e si rassegnò a guardare la semifinale di Sanremo. Almeno avrebbe risentito Uomini soli in versione live, sul palco. Quando spense, qualche ora più tardi, era basito. Non solo i suoi beniamini non si erano esibiti quella sera, ma pare che non fossero nemmeno tra i partecipanti al Festival!

2

«Eppure li ho visti esibirsi ieri l’altro» disse M. all’amico, il quale lo guardava con scetticismo, come si guarda qualcuno che non sai se ti sta prendendo in giro o se è completamente pazzo.

«Quello che dici non ha senso» disse infine l’amico, finendo poi con una sorsata il suo cappuccino. Erano al bar Gherardini, in piazza Dalmazia, seduti al tavolino. M. aveva insistito ad incontrare l’amico più grande, approfittando anche del fatto che non c’era scuola quel giorno: l’istituto tecnico commerciale che frequentava era stato occupato, come tante altre scuole superiori, nei giorni della “Pantera”.

«Non ha senso che nessuno abbia mai sentito nominare i Pooh!» insistette M. sconvolto.

«Io non li ho mai sentiti nominare» ammise candidamente l’amico.

«Non me li sono sognati. Ricordo tutte le loro canzoni, so i testi a memoria, sono dei grandi, immensi.»

«Saranno anche grandi, ma non sono così famosi…»

«No, non capisci. Non è che esistono ma non sono famosi. Io temo che non esistano proprio in questo universo ucronico!»

«Ucro… che?»

«Ucronico. Un universo alternativo identico a quello da cui vengo io, ma in cui i Pooh non sono mai esistiti.»

L’amico scosse la testa con rassegnazione.

«Leggi troppa fantascienza, dacci un taglio, dammi retta. Soprattutto non dire a nessun altro di questa storia se non vuoi ritrovarti in guai seri.»

«Non l’ho detto a nessun altro. Non so come sia potuto succedere, ma è così. L’unica differenza tra questo universo e il mio è che qualcosa ha impedito la nascita dei Pooh. Non so nemmeno se Roby, Red, Dody, Stefano e Valerio esistono anche in questo universo… e qui entri in gioco te.»

«Io??! E cosa posso farci se ti sei ammattito dall’oggi al domani?»

M. gli lanciò uno sguardo pieno di sincerità che l’amico più grande, investigatore privato di grande esperienza e perspicacia, riconobbe subito, convincendolo che l’amico giovane diceva la verità, o almeno ne era arciconvinto.

«Dovresti fare delle ricerche per me» disse. «Non posso pagarti ma…»

«Non è questo il punto. Quello che mi chiedi si risolve in una giornata con i mezzi che ho a disposizione. Basta avere dati di partenza sufficienti: nome, cognome, data e luogo di nascita. Ciò che mi preoccupa è la tua salute mentale, e anche la mia che ti do retta.»

3

M. attese per giorni che l’amico si facesse vivo con delle notizie. L’attesa era trepida. Intanto l’occupazione a scuola era terminata ed era dovuto tornare sui banchi dell’odiato istituto.

Avrebbe potuto un giorno dimenticarsi le canzoni dei Pooh? Ancora le aveva tutte in mente, ma aveva anche l’impressione di vedersele sfuggire di mente da un momento all’altro, perdute per sempre. Ovviamente avrebbe potuto anche tornare nel mondo divergente da cui proveniva, ma ciò poteva capitare tra un minuto come mai più. Non dipendeva da lui. Quello che lui poteva fare era preservare la memoria di quelle canzoni meravigliose. M. non era un cantante né un musicista, era solo un semplice studente e scrittore di fantascienza alle prime armi. Non avrebbe potuto in alcun modo registrare quelle canzoni, ma doveva trovare il modo di farle uscire dalla sua testa e farle entrare nelle teste giuste, di persone che avrebbero potuto fermarle nel tempo. Chi meglio degli stessi Pooh? Solo la voce di Roby & Co. avrebbe potuto rendere quei capolavori della musica moderna, solo la chitarra di Dody avrebbe potuto fare quegli assoli magici, solo il basso di Red e la batteria di Stefano avrebbero potuto valorizzare quelle melodie immortali.

Ma Roby e gli altri esistevano ancora, almeno loro? E cosa facevano, in caso affermativo, se non avevano formato i Pooh? Stavano comunque seguendo carriere musicali separate? O facevano tutt’altro mestiere? Che poi bisognava scoprire cos’era successo all’origine: all’inizio i Pooh erano diversi, l’unico che aveva attraversato completamente la carriera venticinquennale del gruppo era Valerio Negrini, il “quinto Pooh occulto”, il poeta del gruppo dopo che aveva abbandonato le bacchette della batteria nel 1971, lasciando il testimone a Stefano D’Orazio. Dei Pooh in nuce a M. importava poco, per lui il gruppo era composto da quei mitici quattro (più il quinto occulto), come i Beatles (erano scomparsi anche loro? No, loro c’erano ancora[1]). Gli ex Pooh, compreso il bravissimo Riccardo Fogli, appartenevano ad altre epoche, di quando M. non era ancora nato.

Già rimettere insieme quattro perfetti sconosciuti, ammesso che esistessero anche lì, per formare un gruppo musicale era un’impresa titanica. Non aveva idea di come avrebbe fatto, sapeva solo che doveva farlo, almeno tentare.

Il piano gli si andava formando nella mente. A scuola aveva imparato che un grosso problema diventa solubile solo se lo si suddivide in piccoli problemi. Il primo passo era accertarsi che i componenti dei Pooh esistessero, il secondo passo era trovarli e farli incontrare. Il terzo passo era convincerli a suonare insieme, e il quarto passo era trasmettere loro quell’immensa eredità artistica che avevano accumulato in un quarto di secolo prima che sfumasse nell’oblio. Tic toc, il tempo si andava esaurendo. Già cominciava ad avere vuoti di memoria per quanto riguarda i testi. Per gli arrangiamenti ci avrebbero pensato gli stessi Pooh rinati, i Pooh “divergenti”; non sarebbero stati identici agli originali ma bisognava accontentarsi. Intanto riempiva interi quaderni con i testi.

Era immerso in queste considerazioni quando suonò il telefono di casa.

«Vediamoci tra un’ora al solito bar» disse la voce all’altro capo. Era l’amico investigatore, naturalmente. M. fu scosso da un brivido.

4

La giornata era fredda e un po’ grigia. M. arrivò con largo anticipo e nell’attesa si mise a leggere il giornale sul tavolo del bar; il quarantesimo Festival di Sanremo era stato vinto da Toto Cutugno con Gli amori, a Bologna il comitato centrale del PCI aveva approvato la mozione del segretario Achille Occhetto, per la nascita di un nuovo partito riformatore. A M. la politica non interessava: certo, aveva seguito con entusiasmo il crollo del muro di Berlino, qualche mese prima, e si rallegrava che di lì a pochi giorni si sarebbero tenute le prime libere elezioni in Germania dell’Est dopo 57 anni (i Pooh avevano parlato del famigerato Muro in due canzoni risalenti al decennio appena trascorso: Lettera da Berlino Est e Come saremo).

Mise via il giornale quando vide arrivare l’amico, il quale si sedette con fare misterioso, ordinando un caffè macchiato.

«Allora?» domandò smanioso M.

Quello fece un largo sorriso come a godere nel prolungare l’attesa dell’amico.

«Prima il caffè» disse.

M. gli lanciò un’occhiataccia, quindi si mise l’anima in pace e attese. La Betty, la proprietaria del bar, arrivò con un paio di tazzine fumanti. M. finì in un sorso la sua, mentre l’amico grande si gustò la sua con estenuante lentezza.

«Iniziamo da Camillo Lorenzo Ferdinando Facchinetti, in arte “Roby”, nato a Bergamo il 1° maggio 1944» iniziò l’amico. «In effetti esiste, ma non si chiama “Roby”.»

«Vedi, te lo dicevo!»

«Beh, non mi stupisce, sai quanti Facchinetti con quel nome esistono?»

«Ma non nati a Bergamo quel giorno preciso. Poi il soprannome “Roby” glielo avranno dato in campo musicale… a proposito, fa il musicista anche in questo universo?»

«Non dire così, lo sai che mi fa strano quando dici “questo universo”! Comunque non so se suona ancora, ma certo non è il suo mestiere principale.»

«E cosa fa oggi?»

«Gli ho telefonato fingendo un’indagine statistica; gli ho chiesto il mestiere e altre informazioni che potrebbero interessarti. Il tuo Roby Facchinetti oggi lavora nel cinema, ha iniziato come comparsa in alcuni film italiani e qualcosa anche all’estero, poi ha fatto l’aiuto regista in alcune pellicole più recenti, niente di che. Ah, ha anche firmato un paio di colonne sonore di film indipendenti in Lombardia. È sposato e ha una famiglia piuttosto numerosa. La prima figlia…»

«Alessandra!!» quasi gridò M., reprimendo la voglia di intonare il ritornello lì al bar, davanti alla gente.

«Sì, lei, non urlare. In questo periodo sta lavorando ad un film, ma non mi ha detto di più per questioni di privacy.»

«Bene, e uno ce l’abbiamo. Hai trovato anche gli altri quattro?»

«Ne ho trovati quattro su cinque. Donato Battaglia, il tuo “Dody”, nato a Bologna il 1° giugno 1951, è un pilota automobilistico, corre col kart. Bruno “Red” Canzian, nato a Quinto di Treviso il 30 novembre 1951, è uno psicologo e un pittore con l’hobby del bonsai. Stefano D’Orazio, nato a Roma, nel quartiere di Monteverde, il 12 settembre 1948, fa il regista e lo scrittore. Ha pubblicato di recente un curioso romanzo su un tizio che fa naufragio in un’isola deserta… no, non è Robinson Crusoe, ahah… infine c’è Valerio Negrini, concittadino di Dody, è nato il 4 maggio 1946. Di lui si è persa ogni traccia. Poker mancato.»

«È sempre stato un tipo schivo. È lui che ha fondato i Pooh, insieme a Mauro Bertoli: nel 1962 si chiamavano Jaguards, poi nel 1966 cambiarono nome ispirandosi al famoso orsacchiotto. È stato lui a far entrare Roby e Dody nel gruppo. In che senso si sono perse le tracce?»

«Non è stato semplice, Negrini è stato l’osso più duro. Ho dovuto fare una ricerca più approfondita rispetto agli altri, che per fortuna non hanno cambiato residenza. Pare che nel 1960 sia scomparso durante un viaggio aereo sull’Artico…»

Il viso di M. si illuminò.

«Ecco l’inghippo!» esclamò. «Senza Valerio niente Pooh, nemmeno nella loro versione primitiva. Era lui il fondatore. È quello il punto di divergenza.»

«Non capisco.»

«I nostri universi sono identici per tutto e in tutto fino al 1960, fino a quel viaggio aereo che nel mio mondo Valerio non ha mai fatto, oppure da cui è tornato sano e salvo. Qui invece non è tornato e non ha potuto fondare i Pooh. È semplice.»

«E questo cosa implica?»

«Che è una fortuna che io mi ricordi a memoria tutti i suoi testi, altrimenti il piano non funzionerebbe. Naturalmente mi dispiace per il povero Valerio.»

«Capisco. Gli altri sono tutti sposati e con molti figli» continuò l’amico. «Ah, anche Roby Facchinetti ha pubblicato un libro, un romanzo su una ragazzina che fugge da casa.»

«Piccola Katy…»

«Sì, esatto. La protagonista si chiama proprio così, ma come fai a saperlo? È stato pubblicato con un piccolo editore…»

«Eh, c’è tutta una storia dietro…» disse M. reprimendo di nuovo l’impulso a cantare “Oh oh, Piccola Katy, vai vai vaiiiii…”.

«Ma tu davvero ti ricordi a memoria tutti i testi?»

«Per ora» sospirò M. «solo per ora.»

«Bene, la prima fase del tuo piano è completa. Abbiamo i contatti. Adesso?»

«Adesso dobbiamo farli incontrare e convincerli a lavorare insieme.»

«E come?» «Hai presente il film sui Blues Brothers?»

[continua]


[1] Se l’idea alla base di questo racconto, o malizioso lettore, ti ricorda quella di Yesterday, film diretto nel 2019 da Danny Boyle, non ti inganni del tutto, ma il mio racconto sviluppa poi in modo originale il tema. [N.d.A.]

La vera storia di Annie Wilkes

Di Massimo Acciai Baggiani

Dal film Misery non deve morire (1990)

Quante falsità sono state dette e scritte su quella vicenda di Paul. È tutta una grossa calunnia: non dovete credergli! Non ero io la cattiva della storia, tutto al contrario: era lui il carnefice e io la vittima. Gli ho salvato la vita, l’ho curato come neanche sua madre avrebbe fatto e lui come ringraziamento mi ha sequestrata in casa mia e poi mi uccisa. Mi ha uccisa due volte, a pensarci bene: la prima fisicamente, la seconda col suo libro in cui ha rigirato la frittata, dipingendomi come una psicopatica assassina.

È tempo che io racconti la verità, davanti a questo Tribunale ultraterreno.

Non nego di aver portato a casa mia Paul dopo l’incidente. Era ferito e privo di sensi, e in quella maledetta tempesta di neve sarebbe morto senza il mio intervento. Erano gli anni Ottanta, non c’erano cellulari e casa mia era davvero isolata, altrimenti avrei avvertito subito i soccorsi. La tempesta durò a lungo; ero un’infermiera, sapevo cosa fare e lo feci. Mi presi cura di quello scrittore da quattro soldi, ingrato e dall’ego ipertrofico, senza nemmeno sapere chi fosse. Io certa spazzatura non la leggo: in casa mia avreste potuto trovare i classici russi e francesi, insomma della vera letteratura, non certo le avventure sentimentali di Misery Chastain, che conosco solo per sentito dire.

Che Paul fosse un cattivo soggetto non l’ho capito subito. All’inizio anzi sembrava piuttosto simpatico e cordiale, anche se il suo narcisismo era evidente. Innanzitutto si stupì moltissimo di non essere stato riconosciuto subito come personaggio pubblico – ma io i rotocalchi rosa non li leggo – e, quando mi disse il suo nome e notò la mia espressione perplessa, ebbe un lampo nello sguardo che non mi piacque per niente. Se avessi colto quel primo inquietante segnale, se avessi dato retta al mio istinto, adesso sarei ancora viva, a rileggermi in veranda Dostoevskij o Proust.

Sì sono una lettrice dai gusti raffinati. Non fraintendetemi: non è che non mi piaccia la letteratura del mio paese – l’America ha avuto scrittori di prim’ordine – ma l’esotismo della vecchia Europa mi affascina di più. Paul, come sapete, mi accusò perfino di averlo costretto a bruciare il suo romanzo Bolidi, ma, dovete credermi, quel romanzo non l’ha mai scritto! Il suo ritiro in montagna non aveva prodotto assolutamente nulla, il “caro” Paul era in pieno blocco dello scrittore, perciò aveva ucciso la sua eroina nel suo ultimo romanzo edito, si era venuto a noia da solo, non ne poteva più. Sono stato il capro espiatorio anche di quello…

Ma la fantasia non gli mancava, questo no. Si è inventato una storia pazzesca, compreso che fossi stata io a costringerlo a scrivere Il ritorno di Misery, solo per me, quando in realtà se lo sarà fatto scrivere da un ghostwriter dopo avermi assassinato, certo non lo ha scritto a casa mia sotto la minaccia di un martello.

Ma andiamo con ordine.

Paul riaprì gli occhi ventiquattr’ore dopo che lo avevo tolto dai rottami della sua auto, pulito dal sangue, bendato e messo a letto. Mi presentai e gli spiegai che, a causa della tormenta, eravamo isolati e senza corrente elettrica. Qualche albero doveva essere caduto sui cavi elettrici. A lume di candela in una casa in mezzo al bosco, lontana dalla strada principale, ci si può sentire un po’ a disagio, glielo concedo, ma la sua reazione fu spropositata. Mi minacciò urlandomi epiteti irripetibili.

Io lo lasciai solo a smaltire la rabbia, che era principalmente quella di non averlo riconosciuto e di averlo trattato da pari. Queste celebrità con la puzza sotto il naso mi hanno fatto sempre vomitare, ma sono stata comunque un’ottima ospite. L’ho lavato, gli ho dato da mangiare, gli ho cambiato le bende e ho fatto tutto quello che gli avrebbero fatto all’ospedale, anzi di più. Non aveva alcuna fretta di andarsene; aveva trovato l’alibi perfetto per sparire un po’ dalla circolazione, da una moglie che probabilmente lo tradiva e lo vessava, da un editore che lo metteva sotto pressione per un nuovo libro – che non era in grado di scrivere – e magari anche qualche creditore. Insomma, io non l’ho trattenuto affatto contro la sua volontà a casa mia; vi assicuro che era un ospite più che consenziente, ero io semmai che volevo liberarmene al più presto. Non era certo un buon conversatore, non aveva letto neanche una pagina di Tolstoj o di Hugo, era capace soltanto di parlare di baseball e scopate, con un linguaggio che avrebbe fatto arrossire un noto critico d’arte italiano.

Mi ero trasformata nella sua serva, e questo non mi piaceva. Si stava approfittando della mia buona educazione e spirito da crocerossina. Perché allora non l’ho buttato subito fuori di casa? Giusta domanda, difficile risposta. Mi stava ricattando: forte della sua posizione di vip, avrebbe raccontato una versione ben diversa se io non lo avessi tenuto «fuori dal mondo» – così diceva – ancora un altro po’. Fino a quando? «Un altro po’» rispondeva, evasivo. Col tempo finii col sospettare che quando è uscito fuori strada durante la tormenta stesse già pianificando di sparire. Magari aveva qualche conto in sospeso con la malavita…

Mi viene da ridere al pensiero di me che lo avrei costretto a resuscitare la sua Misery. Era lui che costringeva me ad ascoltarlo mentre mi leggeva il suo ultimo romanzo con la sua eroina che muore – ne aveva una copia nella sua borsa, accidenti a me e a quando ho preso anche quella, anziché lasciarla in macchina dove sarebbe stata trovata al disgelo. «Ti devo educare alla buona lettura» mi ripeteva. Quando sollevavo qualche obiezione diventava una belva.

Ormai le sue ferite erano guarite e aveva ripreso le forze, e con esse era aumentato il suo potere su di me. Di carattere sono sempre stata timida e remissiva, quell’uomo mi faceva paura. Non osavo contraddirlo. Quando facevo osservare che sarei comunque dovuta andare in città per segnalare il guasto al cavo telefonico, lui me lo impedì. «Dove credi di andare?» mi urlava «Mettiti piuttosto in poltrona che ti devo educare alla buona lettura».

L’amputazione del suo piede? Non gliel’ho praticata per punirlo di un suo tentativo di fuga, come ha dichiarato alle forze dell’ordine. No, ho dovuto tagliarli quel maledetto piede marcio, andato in cancrena per una ferita che si era procurato durante una delle sue passeggiate nel bosco, in mia compagnia naturalmente, sotto la minaccia del fucile del mio ex marito, custodito per tanti anni nel salotto in una teca.

«Insomma Paul» gli dissi quel giorno «Ti fermerai ancora a lungo?»

«Un altro po’. Tu non sai quante donne vorrebbero avermi come ospite, non riconosci la fortuna che ti è capitata.»

In quel momento mise un piede in fallo e finì in una trappola dimenticata lì da qualche cacciatore. Fu così che si ferì, ma non perse i sensi. Con la pistola puntata lo riportai a casa, lo misi a letto e cercai di curarlo al meglio, ma i farmaci erano ormai esauriti. Dovetti amputare, senza anestesia. Fu lui stesso a ordinarmelo. Avrei potuto approfittare di quel suo momento di debolezza, ma ero troppo impegnata a salvargli, ancora una volta, la vita. Mal me ne incorse, a me e al poliziotto che capitò a casa mia un giorno in cerca di Paul, fraintendendo completamente la situazione. Il poliziotto pensava che fossi io la sequestratrice e che tenessi nascosto lo scrittore. Giunse a me per puro caso, non per via di quell’indizio, inventato da Paul, che mi attribuiva un’autentica ossessione per i suoi romanzi. Altra falsità.

Quando il poliziotto giunse a casa mia lui lo accolse con una fucilata nella schiena. Ormai sapeva di essersi compromesso troppo con me, con tutte quelle minacce: pensava, a ragione, che lo avrei denunciato. Non saprei dire quando prese la decisione di far fuori anche me, se già ci pensava prima della visita del poliziotto oppure fu quello il punto di non ritorno, certo da quel momento le cose precipitarono. Lui mi prese per i capelli, mi trascinò in casa e mi scagliò addosso la vecchia macchina da scrivere Royal (con la “n” fuori uso) che fu di mio marito e che Paul odiava perché non riusciva a cavarci fuori neanche mezza pagina. Io mi difesi con tutte le mie forze, comprendendo a quel punto che si trattava di me o lui.

Se avessi vinto io la storia sarebbe stata raccontata in modo molto diverso, credetemi.

Firenze, 6-7 floreale ’29 (25-26 aprile 2021)

L’AMANTE, seconda e ultima parte

Di Michele Ceri

Trascorse del tempo dal momento in cui i tre si erano conosciuti al rinomato Ristorante. Cosa succedeva?
 Si vedevano spesso per uscire la sera. Nei cuori dei due vecchi amici brillava ancora la contentezza;  molto felici,  intuivano che difficilmente con il trascorrere del tempo la relazione si potesse fermare solamente alla normale amicizia. Arnold in alcuni momenti, però soffriva, pur essendo allo stesso tempo felice. Riversava per la gentile e carina Jane sentimenti contrastanti, opposti. Capiva la imprevedibilità di tutto, della vita stessa. I tre erano diventati affiatati compagni. Spesso si vedevano, oppure si chiamavano al telefono. Una volta Jane gli accompagnò alla stanza dove giocavano a carte. Inoltre i due parlarono alla Miller del lago, dove andavano a pescare e che quel luogo trasmetteva molta pace.
Arrivò la primavera. Tutto si risvegliava, riprendeva forza, questa stagione chiariva i sentimenti gli dava consigli per il futuro. I sentimenti  diventavano adesso,  la cosa più importante. Erano l’aspetto  per cui continuare a domandarsi a se stesso, chi eravamo e cosa stavamo facendo, sotto questo cielo, di campana celeste accompagnato da un sole diverso e circondato da nuvole una volta cariche di pioggia, adesso ornamento dello stesso cielo.
 James Clark e  Arnold Smith ritornarono addirittura al famoso Ristorante. La signorina Miller era stata avvisata e quando gli vide entrare gli sorrise molto dolcemente, anche con lo sguardo. E proprio lei prese le ordinazioni, avvertendoli che gli garantiva un certo sconto.
Quella medesima sera i due mangiarono molto, risero, scherzarono e bevvero anche abbastanza. Trascorsero proprio una bellissimo momento. Jane ogni tanto passava dal loro tavolo chiedendo se  tutto andava bene. 
 La loro discussione lentamente scivolò su la possibilità e il desiderio di fare un viaggio in California. Si un viaggio nel periodo estivo. Mentre parlavano Jane gli si avvicinò e si intrufolò nella discussione. I due amici la invitarono felicemente a partecipare a quell’avvenimento. Arnold si commosse leggermente e dal suo volto vennero giù due lacrime. Ma l’amico prontamente lo rassicurò e Jane lo carezzò affettuosamente. Ma cosa succedeva al Professor Smith ?
Dopo il triste imprevisto, finirono la cena e uscirono dal locale. Fuori James fumò una sigaretta. La stessa Jane aprì la porta e uscì, per riposarsi un poco.
 Arnold tornò a casa a piedi.
Se ancora non l’avete capito il loro sogno odierno, era quello di trascorrere assieme le ferie d’Agosto e nientemeno che in California. Tutti e tre volevano andare in California; si in California, proprio lì. Ma come mai? Da dire che nessuno di loro era mai stato lì.
 La primavera passò senza grandi avvenimenti e arrivata l’estate, una mattina d’agosto si precipitarono alla Stazione per fare i biglietti. Il tempo era bizzarro. Non era molto caldo, si stava bene. Eravamo nella  seconda metà d’agosto e in alcune giornate il cielo si riempiva di nuvole, ma per adesso  non era ancora piovuto.
 Alcuni giorni prima della   partenza ci fu però un forte temporale. Piovve molto. Quindi i nostri tre personaggi se ne rimasero chiaramente in casa per tutto il pomeriggio. Arnold ascoltava la musica che si confondeva con i battiti di pioggia sul tetto; James leggeva il giornale e Jane suonava il pianoforte.
Ma perché gli attraeva la California ? Probabilmente per il fatto che vi era il mare.
Passò una settimana, dal temporale e i tre partirono, incuriositi al massimo.
 Il viaggio non fu per niente monotono. Il treno correva veloce e Jane si era portata anche dei libri da leggere, di genere giallo e sentimentale. Arnold e James in quella occasione, stimolati dal viaggio fecero tante domande alla ragazza. Il  tragitto  durò  tre giorni appunto e finalmente  arrivarono in California. Usciti dalla stazione li si presentò immediatamente davanti il mare. L’obbiettivo del viaggio era raggiunto. In alto volavano gabbiani. Si diedero tutti e tre velocissimamente la mano, per pochi secondi. Il momento si dimostrò romantico e dolcissimo al tempo stesso. Poi  James sbadigliò, Jane prese un caffè al bar vicino, Arnold rimase in silenzio, guardandosi intorno.
 Si  recarono subito all’ Albergo dove avevano già precedentemente fissato il soggiorno estivo. Si trattava di  un Albergo abbastanza di lusso: aveva  quattro stelle. Si mangiava anche bene, dopotutto. Restava  situato  vicino al mare. I tre avevano prenotato due camere: una per i due amici, l’altra per Jane. Avevano deciso di rimanere lì per una decina di giorni. Non poco. Dopo essersi definitivamente accordati con il proprietario sui prezzi del soggiorno, poco ore dopo l’arrivo, se ne andarono immediatamente sulla spiaggia. Il mare gli colpì immediatamente, tutti. Il vento leggero li attraversava come musica, li rendeva ancora più gioiosi e interessarti l’uno dell’altro. Si stavano capendo del tutto che erano oramai l’uno innamorato dell’altro. Il mare rappresentava lo sfondo a quello che era un quadretto composto da loro tre…
 Jane era bellissima e oramai si capiva del tutto che non era per niente solamente un’amica. Tutti e tre fecero molti bagni. A volte stavano nell’acqua per decine e decine di minuti, guardandosi, spruzzandosi l’acqua, ridendo. Il tempo trascorreva con loro che  parlavano, leggevano; vivendo al massimo ogni momento.
 La sera, dopo cena, sul tardi, se ne tornavano sulla spiaggia a guardare le stelle e  rimanevano per diversi minuti in silenzio. Jane:”- Vorrei stare con voi per tutta la vita. Siete senza dubbio i miei amici migliori-“: :”- James- Che carina che sei-“: Sulla spiaggia, quella sera il tempo sembrava essersi fermato, ma positivamente.
 Ma andiamo avanti, proseguiamo nella storia…
 Tra i due quello a cui piaceva più Jane era Arnold. Forse perché James era sposato. Jane, però  guardava senza dubbio più James. E lo si notava.
 I tre ritornarono in New York  e l’estate finì.         
Arnold, si sa rimaneva tutto preso dalla propria professione, ma comunque sia la giovane Jane lo aveva colpito moltissimo e pensava molto, quando tornava da scuola alla vacanza in California. Era :  innamorato.  


Oramai le cose stavano prendendo decisamente una nuova sembianza. Dopo la vacanza in California, James sembrava essere il più fortunato per ciò che riguarda il rapporto con la giovane cameriera.
Arnold amava già abbastanza Jane ma quest’ultima sembrava attratta più dal suo amico,  James; così  Arnold stava male.
 Tra loro due stava nascendo qualcosa di più di una semplice amicizia, come prevedibile  già  sin dall’inizio. Questo anche se James era sposato.
Jane era animo d’artista, ma sicuramente in amore, nel campo sentimentale si dimostrava e si era dimostrata, audace. Questo sicuramente. Viveva ancora con i genitori, che lei reputava indifferenti, anche se parzialmente. Aveva interrotto gli studi a causa del licenziamento del babbo che aveva generato un disagio, nella famiglia in campo economico. Lei così si era fatta in quattro per cercare un lavoro e non aveva trovato d meglio che fare la cameriera. Ma a parte questo, il suo vero sogno restava quello di diventare famosa con la musica. Del resto già da tanti anni studiava sia canto, che pianoforte. E tutto questo gli trasmetteva grande soddisfazione. Anche James ed Arnold erano restati entusiasti e colpiti dalla sua bravura. Però per ovvi motivi economici, non poteva esimersi dal lavoro. Come dicevo precedentemente in  amore era coraggiosa, per non dire sfrontata. E questo lo capiranno sia il Signor Clark che il Professor Smith. Nel bene e nel male.
 Un giorno Jane , che abitava da sola, decise di invitare a casa sua a cena proprio il banchiere.
 Trascorso quasi un anno dal momento in cui aveva conosciuti i due amici al Ristorante italiano, nel periodo autunnale invitò a cena lo stesso James. E egli  accettò  l’invito molto felicemente. Jane stava per diventare così nientemeno che la sua amante. In quel periodo e in quel paese, il fatto avrebbe sicuramente suscitato qualcosa…
 Il signor Clark fece una doccia, si vestì abbastanza elegantemente e prese la macchina. Una volta per strada,  si mise decisamente a cercare  un fioraio per comprare delle rose rosse da regalare alla ragazza. Voleva assolutamente fare bella figura. Trovò aperto il fioraio e comprò fiori bellissimi. Si trattava di rose rosa. La giovane  non abitava lontano dall’abitazione di James.  Qualche chilometro. Ancora in viaggio sentiva il cuore battere per lei, per Jane. La desiderava, ma ancor di più che come amica. La voleva fisicamente. James :”- Sono troppo innamorato e questo da un anno; non riesco a staccare il pensiero da lei. Chi se ne importa di cosa dirà la gente. Del resto non sono religioso.-“:
 Arrivato a destinazione suonò il campanello. Si trovava ai piedi di un bellissimo palazzo. Salì così le scale, mentre tutto contenta lei  lo stava aspettando sulla soglia di casa. Lo fece entrare e lui le diede le rose. Si guardarono negli occhi. Erano entrambi innamorati. Jane :”- Che carino che sei, grazie.-“:
 La giovane donna, brava a cucinare, aveva preparato una cena  piuttosto opulenta. Subito dopo l’ingresso del banchiere in casa, Jane  gli diede un bacio sulla guancia, guardandolo. Lui sorpreso leggermente la fissò. James :” E dalla prima volta, dal primo istante che ti ho visto che sogno questo momento. Ti ringrazio per avermi dato questa possibilità. Anche se sono sposato, non rifiuto certamente la tua disponibilità. Sono di te affascinato anche dal modo con cui suoni il pianoforte. Quando suoni il tuo sguardo cambia e anche le tue mani attraggono molto. Ti stimo molto anche se ti o visto solo una volta.-“:
 Prima di cenare si sedettero  sul comodissimo divano del salotto e si misero ad ascoltare un po’ di musica. Musica Classica e  Jazz. Ad un certo punto Jane s’alzò e si sedette sullo sgabello davanti al pianoforte. Prese uno spartito tra i tanti e si mise a suonare. James spontaneamente applaudì prima ancora che la ragazza avesse terminato il primo pezzo. La musica scelta era di Vivaldi. James l’osservava, innamoratissimo.
 Il sole era da poco tramontato, ma vi era ancora un po’ di luce che filtrava dalle persiane mezze tirate giù. Jane si spostò e accese una candela. Continuò a suonare, l’atmosfera era soffusa e Jane appariva sempre di più, molto brava. James venne preso da brividi di felicità. Continuò ad osservarla, fumando un paio di sigarette. Jane :”- Adesso sarai contento…-“:
 Cenarono e a tavola non parlarono molto. Ma comunque finito di mangiare  tornarono sul divano e  lì dopo pochi secondi si presero per mano. Si baciarono e s’addormentarono lì.
 Si svegliarono la mattina tardi.  Jane era oramai diventata l’amante di James, anche se ancora per una volta solamente. Fecero colazione  si salutarono e decisero di rivedersi il più presto possibile.
James però per la strada del ritorno venne preso da un senso d’inquietudine  molto forte; non gli pesava solamente il fatto di essere sposato, che anche aveva la sua rilevanza ma lo preoccupava bensì ancora di più il fatto  che anche il suo amico migliore, Arnold, si lo stesso Arnold,   era innamorato della medesima persona. Tornato a casa si addormentò nuovamente sul divano; mentre la moglie era a lavorare. Sognò che l’amico saputa la notizia, essendo molto sensibile si sarebbe suicidato.
 Si risvegliò che oramai erano le cinque del pomeriggio; la moglie, che in una biblioteca lavorava sarebbe tornata da lì a poco.




Come scrisse S. nell’ l’Amleto, :” Ci sono più cose tra il cielo e la terra, Orazio, di quante non e sogni la tua filosofia.-“:
Arnold, poco tempo dopo riuscì a sapere da James la notizia. Si erano incontrati   per caso in strada. James confessò la cosa all’amico. Per non mentire.
Arnold  era rimasto fortemente disturbato  dalle decisione di Jane di preferire James a lui e di essere diventata del carissimo amico, l’amante.
  La mattina seguente l’incontro con James, il professore se ne stava sdraiato sopra il letto di casa e rimuginava in continuazione. Non aveva più punti fermi. Oramai anche il suo miglior amico l’aveva tradito. Era fortemente ansioso. Cosa gli stava accadendo ?
 Purtroppo gli venne la voglia di suicidarsi come estremo rimedio per non pensare più a niente;  nei suoi pensieri infatti il suicidio  diventava l’unica soluzione a tutto. Anche se voleva bene a tutti, nonostante tutto purtroppo decise di farlo comunque.  Si procurò una corda e riuscì in qualche modo a legarla al soffitto. Poi, però mentre stava per compiere quel gesto estremo, cambiò velocemente idea. E non si uccise Arnold :” -Perchè uccidersi, si domandò.-“: Non ne valeva proprio la pena:  si mise immediatamente a piangere. Quei pochi minuti di pianto lo fecero crescere enormemente, maturare.
 Cominciò a ragionare dentro di sé. Si ricordava di tutto; stava maturando. Nell’ultima parte della storia, era subentrato in lui un senso di tristezza e di dolore, scaturito dal comportamento sia di Jane che di James. Trascorse  solamente un’ora  dal gesto insensato che  Arnold pensò di fare un viaggio, non molto lungo ma un viaggio; nei suoi pensieri sentiva il desiderio di cambiare  città.  Era scombussolato, si direbbe oggi.
Tra l’altro si ricordò improvvisamente come un lampo di possedere una moto nel garage, che apparteneva ad un suo vecchio zio che l’aveva lasciata lì oramai da diverso tempo. Scese le scale ed entrò direttamente nel garage; appena  vista la moto gli tornò alla mente quando da piccolo  suo zio lo portava in giro proprio con lo stesso mezzo. Aveva davanti una discreta moto, vecchia ma di marca. Si fece il segno della croce e salì sopra la moto. Le chiavi erano rimaste ancora infilate nella  moto, anche se era molto tempo che la moto era ferma, nel garage. Girò le  chiavi, il mezzo s’accese e partì.
 Per fortuna il viaggio fu pieno di sorprese; infatti incontrò, per il cammino tre persone. Ebbe così modo di divertirsi e distrarsi un po’, dopo la tremenda mattinata appena trascorsa. Infatti subito dopo qualche chilometro di strada, verso ovest, vide un autostoppista. Arnold lo fece salire sopra la moto, anche perché  andavano verso la stessa direzione. Ma le sorprese continuarono. Il secondo incontro fu quello di una giovane ragazza. Che fosse una prostituta? Arnold- tutto bene?- la P-Si- Non si sa.  Poco dopo i due, ovvero il professore e l’autostoppista entrarono in un paesetto. Entrarono nel centro dove vi era un  “disgraziato” che suonava la chitarra, per tutti. Il chitarrista, in pratica chiedeva anche di essere remunerato, con dell’elemosine.
 Comunque sia, alla fine lasciò l’autostoppista nel paese e decise di far ritorno a casa. Il ritorno fu senza dubbio molto più veloce dell’andata.
 Ormai, per fortuna la tristezza lo aveva abbandonato e adesso riusciva a vedere il tutto in modo più calmo e tranquillo. Arnold, :”- Sono stato veramente intelligente sono riuscito a salvarmi dalla morte.-“: e cominciò  a superare, anche se lentamente l’innamoramento nei confronti di Jane. Parcheggiò la moto nuovamente nel garage e s’addormentò. Dormì per diverso tempo e  quando si svegliò  era felice, per fortuna.


 Le vicende accadute fanno parte  adesso del passato. Tutto appartiene al ricordo: la loro amicizia, la cena al Ristorante, la conoscenza di Jane la cameriera, ecc…
Tutto ricomincia dieci anni dopo, terminato da poco il Secondo Conflitto Mondiale.


 James Clark, Arnold Smith e Jane Miller la cameriera nell’arco di tutto questo tempo non si erano più visti né sentiti; ognuno chiaramente andava decisamente  per la propria strada.  James con l’aiuto  interventista dello Stato, il superamento della crisi  era riuscito a tornare a fare l’impiegato di banca.  Comunque sia i suoi rapporti con la moglie non andavano bene.  I due litigavano spesso, avevano caratteri diversi. Fortunatamente non avevano figli.
 Arnold invece stava bene. Ma le sorprese per il signor Smith, non erano terminate.
Infatti  aveva ricevuto  una lettera di lavoro  nella quale  lo si  pregava di emigrare in Europa, per trovare occupazione in una famosa Università Inglese. Era stato chiamato per insegnare e eseguire ricerche in campo storico-filosofico. Ad Arnold era piaciuta molto l’idea. Anzi ne andava fiero. Sia perché sognava  da molto tempo  di fare un viaggio in Europa, anche se soltanto a scopo turistico. Sia perché si alzava il livello del suo lavoro.
 Invece Jane, adesso, non abitava più a New York. Si era trasferita addirittura in un altro stato; precisamente da un suo vecchio zio. Si era licenziata dal Ristorante e aveva ripreso gli studi , precisamente musicali. Ambiva  diventare famosa a suonare il pianoforte. Anche lei non aveva più visto ne James né Arnold.
Per Arnold una cosa era certa : sarebbe emigrato in Europa. Ma una mattina scendendo le scale, prese la posta da poco arrivata, dalla cassetta. La guardò attentamente: era nientemeno che una lettera dell’ex amico banchiere. Arnold era stupito, ma anche commosso e contento. Contento di risentire, anche se soltanto per lettera il suo vecchio, caro, amico, compagno. Così aprì la porta d’ingresso e cominciò a camminare sul marciapiede che correva velocemente attraversato da tutti.  Dopo qualche decina di secondi aprì la missiva. In essa, James usava un tono amichevole e affettuoso. Si scusava decisamente con l’amico di quello che era  accaduto con Jane. Pregava l’amico di perdonarlo. Come dice S. nell’ Amleto : “-Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante non ne sogni la tua filosofia.-“:  Tra l’altro anche James manifestava apertamente il progetto  d’emigrare in Europa.  Arnold rimase felicissimo di tutto ciò.
 Tempo dopo, trascorse  alcune settimane dalla lettura della corrispondenza, il Professore riscrisse all’amico.  Lo invitava a rincontrarsi per  discutere sul viaggio in Europa.
 I due così, si ritrovarono nel Parco. Proprio come era accaduto anni prima. Si, fissarono lì, nel medesimo Parco.
Discussero di svariate cose, adesso appartenenti al passato, ricordando tutto: come il loro primo incontro, la cena al Ristorante, la discussione sull’Europa al Parco, per terminare con il ricordo di  Jane e dell’ eccezionale gita in California. A proposito ricordarono la felicità provata durante quella vacanza, durata più di una settimana, nel mese d’Agosto.
 I due, continuarono a vedersi e sentirsi per telefono, quasi ogni giorno.
 Le settimane passavano velocemente mentre  si vedevano sempre al Parco e a volte, tra i tanti argomenti si domandavano anche che fine avesse fatto Jane. Stavano lì per alcune ore, riflettendo e discutendo; al tramonto se ne tornavano a casa.
Trascorsero alcune settimane fino a che venne il giorno preciso in cui i due amici optarono orgogliosamente di prendere l’aereo per andare in Europa. La meta stabilita era Londra, in Inghilterra.
Arrivò finalmente il giorno della partenza, una mattina fredda d’ ottobre. Partirono avendo comunque delle perplessità. In definitiva James non lasciò pero sola la moglie che emigrò con lui in Inghilterra. Quest’ultimo  sarebbe riuscito a lavorare in una banca inglese, mentre anche la moglie avrebbe lavorato. Aveva accordato tutto, prima della partenza.
 Arnold si domandava alcune cose concrete sulla sua permanenza a Londra. C’era anche da sottolineare che lui, adesso , soffriva di qualche piccolo disturbo psichico anche se non grave. Arnold :”-Caro amico, sono sicuro che ce la faremo.-“: James :”- Ne sono fermamente convinto. Poi l’Europa è bellissima e anche Londra lo è. Siamo entrambi sulla strada giusta.-“: Mentre l’aereo stava per decollare Arnold si commosse un po’, ricordando i momenti della scuola, quando insegnava. Poi il pensiero venne attratto da argomenti politici. Come la crisi economica, nota come Grande Depressione, il Nuovo Corso, Il Presidente degli Stati Uniti.
 In poco tempo arrivarono a Londra e  la città vista dall’alto era ancora più bella.
 E Jane? Non sapevano esattamente dove abitasse ma avevano voglia di scriverle una cartolina. Arnold:”- mi piacerebbe salutare Jane. –“: James:”- anche a me.-“: Arnold:”- Chissà come starà. Sono certo che diverrà una musicista affermata e nonostante tutto si ricorderà anche di noi. Ma  avrà voglia di risentirci?.-“:
Così come la prima volta fuori dal Ristorante, tanti anni prima i  due si misero a parlare di Jane. Ma soprattutto erano allegrissimi di rivedersi e di essere  nuovamente amici. Adesso li aspettava un altro periodo della loro vita . Adesso stavano viaggiando verso l’Europa e questa rimaneva al momento la cosa più bella di tutte; al di là di Jane e di tutto il passato.


L’amicizia aveva vinto, sul resto…